Quantcast
Channel: Michele Monina – Il Fatto Quotidiano
Viewing all 299 articles
Browse latest View live

La La Land, perché gridare al miracolo per questo film è imbarazzante: La La Lagna

$
0
0

“Non ce n’è uno di voi in questa stanza che riconoscerebbe l’amore neanche se si alzasse e ve lo mettesse nel cu**”.

Alla fine ho ceduto, sono andato a vedere La La Land. Non averlo fatto stava diventando qualcosa di naïf, e io odio essere naïf. Oggi ancora di più, perché per non essere naïf mi sono sottoposto a oltre due ore di musical, e solo Dio sa quanto io odi i musical, e per di più di musical totalmente sbagliato.

Andiamo con ordine.
La La Land, si è detto in tutti i modi, in tutti i luoghi, in tutti i laghi, è un musical contemporaneo che affronta in maniera romantica il tema della solitudine e del tentativo di due solitudini di raggiungere i propri sogni e della difficoltà di realizzarli, demolendo il postmoderno e riportando il romanticismo al centro della narrazione e dell’estetica. Un film che affrontando la matrice del musical sposta l’accento dalla coralità tipica del genere ponendo tutta l’attenzione su due soli personaggi, quelli portati nello schermo da Ryan Gosling e Emma Stone, e soprattutto sulla Los Angeles, L.A., evocata nel titolo.

Tutte cazzate.
La La Land è un musical contemporaneo, sì, ma questa cosa non va letta come un complimento, perché della contemporaneità ha preso solo i difetti, evitando invece di far i conti con le variazioni semantiche che l’oggi impone. Mi spiego meglio. Ormai una vita fa Baz Luhrmann “poppizzò il genere” con Moulin Rouge. In quel caso, con spirito che venne descritto più da videomaker (nel senso da regista di videoclip) che da regista cinematografico, almeno da chi intendeva stigmatizzare l’opera, Luhrmann giocava sui registri, sulle citazioni, sul massimalismo, come il postmordernismo, il cosiddetto avant-pop sembrava pretendere.

Oggi il trentaduenne Damien Chazelle, forte di un ottimo Whiplash, decide di tornare alla vecchia grammatica, negando l’essenza OGM del postmoderno, e riportando le tante citazioni al mero uso didascalico. Il tutto, quindi, con un tocco classico modernizzato o contemporaneizzato dalla quotidianità affrontata dai due protagonisti, Mia, aspirante attrice, e Sebastiano, aspirante jazzista, l’una impegnata come cameriera, l’altro come pianista da pianobar o da party. Il tutto condito da una sottotraccia di femminismo, con Mia che dovrebbe essere profilata come un personaggio di donna che affronta la vita e anche l’amore, deluso e deludente, con la testa alta.

Tutto molto bello, sulla carta. Ma Chazelle incappa nella maniera, nell’estetica fine a se stessa (il piano sequenza iniziale, che sembra non si possa non citare in un articolo su La La Land, è perfetto, ma non sorprendente come poteva essere il piano sequenza iniziale di Omicidio in diretta di De Palma, o quello, più pertinente per tematica, di I protagonisti di Robert Altman, per dire). In questo, in effetti, La La Land è un perfetto film contemporaneo, laddove la caratteristica che prevale è quella dell’anaffettività. Tanto in Whiplash si sentiva il sudore e il sangue, quanto qui manca tutto: il cuore, le lacrime, la vita.

Bidimensionalità, come in certe scenografie dei vecchi western. Il citazionismo non reinterpretato diventa fine a se stesso, per altro tradendo clamorosamente il jazz, che sulla personalizzazione dei canoni è basato. Ecco, questa incapacità di commuovere è la sola nota positiva di questo film, anche se del tutto involontaria. Stiamo ovviamente parlando a livello teorico, perché poi uno è ovviamente libero di empatizzare anche con una scatola di piselli surgelati, se lo ritiene giusto o necessario o, più semplicemente, se gli va. Ma gridare al miracolo per questo film è imbarazzante. Anche perché sugli stessi temi si sono viste altre opere, quelle sì, entrate nel novero dei capolavori.

Gira in rete, in queste ore, fabbricato dal regista Jon Tomlinson, un simpatico video che ci mostra come sarebbe stato La La Land se a dirigerlo fosse stato David Lynch. Simpatico, eh, da vedere. Ma David Lynch ha seriamente scritto il film definitivo sui temi affrontati in La La Land, e forse sarebbe più il caso di vedersi direttamente quello, o al limite rivederselo. Parlo ovviamente del must Mullholand Drive, che in qualche modo si è fatto canone sia per quel che riguarda la solitudine, sia le aspettative che, soprattutto, Los Angeles, protagonista assoluta del film di Chazelle.

Pensare a un musical di David Lynch, in effetti, mette le vertigini. Pure ipotizzare che il postmoderno vada rivisto, in effetti, se si tiene come base la sua filmografia.
La La Land è un film carino. Anche se a vederlo sembra bello, perfetto, come certe reginette della classe di certi film americani, quelli per cui in genere i giovani protagonisti perdono la testa, salvo poi trovare l’amore con la ragazza con gli occhiali e l’apparecchio del banco di fianco. Questione di sangue e sudore.

L'articolo La La Land, perché gridare al miracolo per questo film è imbarazzante: La La Lagna proviene da Il Fatto Quotidiano.


Samuele Bersani è tornato (in tour) e riesce a strappare sorrisi e lacrime

$
0
0

Samuele Bersani è tornato. E quanto se ne sentiva il bisogno. Dopo un anno, circa, di attesa, con un rinvio dovuto a problemi di percorso per un cantante, ecco che il La fortuna che abbiamo tour sbarca a Milano, carico di tutta quella musica sghemba e bellissima che è il regalo che Bersani sta, da oltre venticinque anni, facendo alla musica italiana. Un cantautore nel senso più profondo e moderno del termine.

Uno che ha sempre giocato in sottrazione, almeno sul fronte del presenzialismo, tanto quanto ha spinto sul massimalismo sul fronte dello sperimentalismo linguistico in musica. Le parole delle sue canzoni, parole che la folla accorsa al Teatro Arcimboldi ha costantemente cantato in coro, ci raccontano storie di personaggi caduti sul pianeta Terra, e che sul pianeta Terra si muovono con la leggerezza goffa con cui lo stesso Bersani si muove sul palco. Perché, diciamolo senza indugi, il cantautore di Cattolica scoperto da Dalla nel 1991, in maniera che esplicitata da altri potrebbe sembrare naïf, ma che portata in giro da lui è pulsante e credibile, riesce nel giro di pochi secondi a strappare sorrisi e lacrime, divertimento e commozione, proprio per una genuina attitudine, per una incapacità di mediare anche solo i movimenti, figuriamoci le emozioni, lì senza pelle davanti a tutti.

Tempo fa scrivevo che En e Xanax, una delle sue ultime canzoni divenute manifesto della sua poetica, è canzone capace di farci il cuore a pezzi. Una frase che potrebbe sembrare smielata, eccessivamente romantica, adolescenziale. Ma non c’è altro modo di raccontare questa storia, e il modo in cui Bersani la racconta in musica, se non ricorrendo a una immagine tanto abusata e riproponendola con lo stesso candore con cui, lui, è in grado di raccontarci le fragilità e l’immenso amore dei due ragazzi protagonisti.

A inizio concerto Bersani, quasi a giustificarsi per la sua assenza, ha parlato al pubblico. A lungo. Ha spiegato come, nel corso di questa lunga assenza, abbia rivisto alcune cose, a partire da quel che avrebbe voluto dal pubblico durante il concerto. Questo si è tradotto in un lungo abbraccio, un coinvolgimento sincero. E forte di questo calore, Bersani si è dato senza mai tirare il freno, cantando le sue storie appoggiate su metriche apparentemente spericolate, su melodie capaci di aprirsi, talento quello di scrivere melodie e armonie così, proprie dei veri compositori, lasciando che ogni persona presente in sala avesse libero accesso al suo malinconico e al tempo stesso buffo immaginario.

Accompagnato da una band di tutto rispetto, polistrumentisti disposti a giocare a ogni brano, passando dalle chitarre al banjo, all’ukulele, dal flauto al sax, Bersani ha messo sul piatto tutte le sue canzoni più famose e amate, con alcune chicche ripescate dal pubblico attraverso una specie di sondaggio lanciato sui social. Tra queste anche La fortuna che abbiamo, canzone che non ha trovato il successo che meritava, ma che mette in scena proprio quelle caratteristiche letterarie e compositive di cui si diceva poc’anzi.

Bersani, classe 1970, rappresenta, insieme a Niccolò Fabi, Daniele Silvestri, Max Gazzè e Federico Zampaglione dei Tiromancino, una delle poche soddisfazioni della mia generazione, una generazione schiacciata dalla presente, incapace di farsi da parte, di lasciare spiragli, in ogni campo del sociale, e con sotto l’abisso della contemporaneità, un grande buco nero che omogeneizza tutto e lo fa appiattendo lo scenario emotivo e artistico, come se esistesse solo la superficie. Il suo primo album, datato 1992, si intitolava C’hanno preso tutto. Fortunatamente, almeno in musica, non è così. La fortuna che abbiamo ad avere cantatori come lui, per dire.

L'articolo Samuele Bersani è tornato (in tour) e riesce a strappare sorrisi e lacrime proviene da Il Fatto Quotidiano.

Quand’è che il settore musica deciderà di fare i conti con la sua imminente fine?

$
0
0

Fughiamo subito un dubbio, non è nostra intenzione essere nostalgici. Lungi da noi il far nostro il detto “Ah, come si stava meglio ai nostri tempi“. Per più di un motivo. Primo perché non è mai utile guardare con rimpianto al passato. Secondo, perché quando in effetti si stava meglio noi non c’eravamo ancora, o meglio, c’eravamo, ma eravamo troppo giovani per averne approfittato. Come dire, ci siamo affacciati al magico mondo della musica, di questo stiamo parlando, quando la tavola imbandita era stata sparecchiata, e non rimanevano neanche le briciole.

Quando infatti alla fine degli anni ’90 si è cominciata a paventare l’ipotesi che la musica si sarebbe potuta scambiare tramite internet, la storia di Napster la conoscete tutti, noi eravamo giovani, appena affacciati al mondo del lavoro. Non erano invece giovani i discografici che accolsero il file sharing con una grassa risata, convinti come erano che nessuno avrebbe rinunciato al supporto fisico, loro che avevano vissuto il tragico, per i cultori di musica, passaggio tra vinile e cd. La storia la conoscete già. Loro ridevano, l’Mp3 arrivò e si mangiò tutto, con buona pace del cd, destinato a vita breve e neanche troppo intensa. Poi, correndo avanti col cursore, c’è stato di tutto, da Emule a Torrent, fino all’avvento di Youtube e poi dello streaming, da Deezer a Spotify, fino a Tidal e tutta la bella compagnia. Intorno, anche questo lo sapete, la Morte Nera. Anche a livello di contenuti, perché ascoltare musica coi nuovi supporti ha cambiato anche il modo di fare musica, ma questa è faccenda ancora più complessa, che merita più spazio e tempo.

Nei fatti, neanche dieci anni fa, c’era gente che vendeva, anche da noi, centinaia di migliaia di album in cd, cioè c’erano centinaia di migliaia di persone che uscivano di casa, andavano in un negozio e si portavano a casa un cd. Oggi si vendono migliaia di cd, e sempre di più la musica è ascoltata e, ci dicono, venduta, in streaming, ancora più che in download. Cioè, tecnicamente, non è venduta, ma al limite è affittata temporaneamente. Le note lamentele degli artisti rispetto alla scelta di appaltare il mercato a chi gestisce lo streaming sono all’ordine del giorno. Milioni di visualizzazioni su Youtube, di brani in streaming su Spotify e affini porta loro in tasca niente, o quasi.

Eh, ma poi ci sono i live, dirà qualcuno. E ‘grazie al cazzo’. Come dire, siccome non vendi più musica, come in passato, ora puoi campare di live. Peccato che in passato questi due settori fossero contigui, non fusi. Quindi c’era gente che campava dell’uno e dell’altro. Peccato pure che non necessariamente un artista debba o voglia fare live. O che funzioni altrettanto bene nei live. E questo non va letto come una pecca, ma come un dato di fatto. Anche perché se no non si dovrebbe più parlare di catalogo, perché tutti gli artisti morti di cui ancora c’è musica, non possono certo fare live, siamo tutti d’accordo.

In tutto questo, ci dicono, il mercato in Italia è in crescita. Grazie allo streaming e al download, soprattutto allo streaming. Sappiamo tutti dei primi album certificati oro e platino solo con lo streaming, Rovazzi in primis. Sappiamo anche che disco d’oro e di platino, certificazioni atte a premiare le vendite dei singoli e degli album, si sono negli anni abbassate a livelli ridicoli, 25mila e 50mila, oggi. Ma il mercato è in crescita, dicono, come non accorgersene. Anche quello del vinile, e poco conta che un tempo i numeri per cui oggi c’è gente affetta da priapismo li avrebbero utilizzati come copie in regalo per la stampa. Il mercato è in crescita, dicono, basta guardare la pioggia di certificazioni arrivate anche solo negli ultimi giorni.

Ecco, guardiamo a queste certificazioni. E guardiamo al fatto che la Fimi abbia legittimamente deciso di alzare la soglia di comparazione tra streaming a download da cento a uno, come era fino a febbraio, a centotrenta a uno. Tradotto, ogni centotrenta volte che qualcuno si ascolta un brano, con un tetto di dieci ascolti riconducibili a una unità al giorno, è come se se lo fosse scaricato, quindi comprato. Chiaramente quei trenta streaming in più fanno una differenza notevolissima: ora sì che i cantanti torneranno a guadagnare dalla musica, ora sì che le certificazioni, e quindi le classifiche, sono veritiere!

E attenzione, qui non si parla di brogli, anche se sarebbe assai interessante capire se non c’è davvero modo di gonfiare i dati, come avviene per i Like sui social. Se gli artisti guadagnano nulla dallo streaming, così magari non è necessariamente per le case discografiche, che da una parte regalano ai cantati l’onore di certificazioni di cartone (si pensi, per dire, al Platino preso da Fragola con la pur bella D’improvviso), dall’altra, si suppone, avranno stretto accordi di cessione di catalogo con le aziende che ‘lavorano lo streaming’, lavorando sui forfait e quindi portando a casa un fisso, ultimo modo per fare cassa in un periodo non di vacche magre, ma di vacche morte.

Chiediamoci, già che ci siamo, quando il settore musica deciderà di fare i conti con la sua imminente fine, almeno per come lo abbiamo conosciuto. Intanto brindiamo alle Platinum Shower, le docce di platino, che hanno invaso il mercato italiano. Se le scopre Mr Grey ci tocca un altro ciclo di Cinquanta sfumature…

L'articolo Quand’è che il settore musica deciderà di fare i conti con la sua imminente fine? proviene da Il Fatto Quotidiano.

Masterchef 2017, la finale: perché il talent di Sky è come il porno

$
0
0

Stasera andrà in onda su Sky un momento clou della televisione di questi anni. Tranquilli, nessuno spoiler, a quelli ci pensa Striscia la Notizia. No, stasera lo chef televisivo per antonomasia, Carlo Cracco, darà il suo addio a MasterChef e continuerà a fare tv ma lontano dal programma che l’ha reso un personaggio mainstream. Dice che è tornato il momento di rimettersi a fare il suo mestiere a tempo pieno, e, si suppone, a passare il tempo libero nel suo living, dove è solamente Carlo.

Sulla carta niente di strano. Uno fa lo chef, diventa momentaneamente famosissimo grazie a un programma che ha imposto la cucina come un must nell’immaginario degli italiani, poi altrettanto naturalmente rientra nei ranghi e torna a cucinare, aprendo nuovi ristoranti stellati, continuando a fare spot in cui propone patatine fritte servite come delizie, insomma, fa il suo. Del resto, immagino non a caso, i giudici di MasterChef erano già diventati quattro, con l’arrivo di Cannavacciulo e anche senza il bel Cracco il programma continuerà a fare il suo. Magari inserirà nel cast una donna, come auspicato da Cracco, o farà salire a bordo l’altro chef televisivo Alessandro Borghese, già in MasterChef Jr.

La domanda che l’addio al “programma di cucina dei programmi di cucina” può far sorgere, però, non è tanto “chi sostituirà Cracco l’anno prossimo?”. No, la domanda che in molti ci stiamo ponendo è “Quand’è che anche gli altri simpatici chef si toglieranno dalle palle?” Perché è vero che la cucina è una delle eccellenze italiane nel mondo, e se si permettono di fare programmi sul tema gli americani noi dovremmo pensare a una televisione tematica 24 su 24. È vero anche confrontati con la Clerici che canta Le tagliatelle di nonna Pina programmi come MasterChef sembrano inediti giovanili di Michelangelo Antonioni. Ed è vero che MasterChef e affini hanno dimostrato che si può fare buona televisione non necessariamente buttandola sul piagnisteo o sulla cronaca nera.

Ma vogliamo considerare l’illogicità di mandare in onda un talent in cui gli spettatori non possono farsi un’opinione personale del talento dei partecipanti, finendo per doversi fidare del parere dei giudici, unici destinati a assaggiare i piatti dei concorrenti? Quello che ci resta addosso dopo una qualsiasi puntata di una qualsiasi trasmissione di cucina in tv è da una parte la sensazione tipica degli appassionati di porno, ovvero qualcuno ne ha fatte di tutti i colori e lui è rimasto a guardare con il pisello in mano, dall’altra la sana curiosità, anche questa ascrivibile al porno, di sapere se a provare quel che ci hanno raccontato e fatto vedere in effetti la faccenda sarebbe così ganza come è sembrata. Niente di più. Come un talent musicale senza audio. Bravi i giudici, bel ritmo, ma qui tocca andare di fantasia.

Allora forse è il caso che anche gli altri chef la smettano di ammorbarci con brutte parole come impiattamento, di farci passare per plausibile una cucina in cui con tre spaghetti arrotolati bene hai fatto un piatto di pasta (quando, come diceva Dario Cassini, sessanta grammi di pasta vanno bene per sentire se è al dente, siamo tutti d’accordo), di ossessionarci col rispetto della tradizione e poi far cucinare i concorrenti col Plancton da seimila euro al chilogrammo. Sono anni che la cucina è sì tornata a essere centrale nel nostro immaginario, ma una cucina del tutto improbabile. La domanda resta quindi questa, cari colleghi di Carlo Cracco, quando ve ne tornerete a cucinare e ci lasciate in pace a cucinare la nostra pasta alla carbonara con la pancetta e a rimpiangere quasi con le lacrime agli occhi le permette alla vodka dei magici anni Ottanta? Perché voi, da Carlo Cracco a scendere, sarete pure dei maghi a cucinare, ma quando si tratta di mangiare a noi non ci batte nessuno. Provare per credere.

L'articolo Masterchef 2017, la finale: perché il talent di Sky è come il porno proviene da Il Fatto Quotidiano.

Decibel, Enrico Ruggeri torna con la sua band: “Il rock, la musica che facciamo da 40 anni, è oggi la nuova ‘classica'”

$
0
0

Da qualunque prospettiva lo si guardi, questo 2017 per Enrico Ruggeri doveva proprio essere un anno importante. Per l’anagrafe, sicuramente, perché in giugno festeggerà i suoi sessant’anni. Per la carriera, perché sono quarant’anni tondi tondi dalla sua comparsa, capelli biondo platino in testa, occhialoni dalle lenti nere e l’ingombrante montatura bianca a coprire lo sguardo, sulla scena musicale italiana. Per la sua passione smodata per il punk, che sempre quest’anno vede il resto del mondo, l’Italia un po’ meno, a festeggiare i primi quarant’anni anche di questo movimento, almeno nella sua versione UK.

Ma non solo, perché quest’anno è anche l’anno del ritorno sulle scene dei Decibel, prima band in cui il nostro ha militato. Evento, questo, non certo casuale, proprio nel 2017.
Il fatto è questo: di fronte a tante cifre tonde, i sessanta dalla nascita, i quaranta dalla carriera, Rouge, così lo chiamano i suoi fan e i suoi amici, ha deciso di fare qualcosa che rimarcasse gli eventi, senza cadere però nell’ovvio. Non puoi costruire una carriera andando contro corrente e poi banalizzare proprio il momento in cui di quella carriera vai a soffiare le candeline. Per cui, scartando la troppo scontata e faticosa idea del classico album raccolta con duetti (“Ci pensi a mettere d’accordo tutti gli ospiti, io voglio cantante questa, io quella. E soprattutto tutti i loro manager, le loro case discografiche… Troppa fatica…”), Ruggeri ha optato per qualcosa che in partenza doveva essere quasi intima, una cosa tra amici.

Cosa? Tornare a suonare una canzone con la sua vecchia band. Del resto con Silvio Capeccia, tastiere, e Fulvio Muzio, chitarre e tastiere, si erano già ritrovati tre anni fa, a un concerto celebrativo degli Sparks, a Londra. Non che si fossero mai del tutto persi di vista, gli altri due a collaborare sovente nel corso degli anni, ma a quel concerto della band americana qualcosa si era riacceso. Così Enrico propone ai suoi ex soci di fare un concerto per gli amici, questa la prima idea per festeggiare i suoi primi sessant’anni. Poi no, cambia idea, meglio provare a fare un brano nuovo, magari da mettere come inedito in una raccolta. Una cosa tira l’altra, Silvio e Fulvio cominciano a tirare fuori idee che stavano nel cassetto da tempo, in sala prove torna la vecchia chimica, ed ecco che da qualcosa di intimo, di scherzoso salta fuori un intero album di inediti, a distanza di una vita.

Noblesse oblige, il titolo, molto decibelliano, certamente, e di conseguenza molto ruggeriano. Un album, questo, che presenta tutto il repertorio di colori della band, con i più la maturità acquisita negli anni. Non quindi, questo potrebbe pensare chi non li conoscesse leggendo il riferimento al punk, qualcosa di energico e sfrontato (ascoltate le parole di Fashion o Il Jackpot, per capire). Ma davvero una tavolozza di colori amplissima, dalla ballata d’amore definitiva, dedicata all’ultima donna della vita (sorta di negazione del brano presentato da Rouge a Sanremo l’anno scorso, Il primo amore non si scorda mai), a brani kurtwieliani, che su basi pianistiche dipingono scenari apocalittici e complottistici. In mezzo il rock, la canzone d’autore, il punk. Tutto. E, cosa affatto scontata oggi, tutto suonato davvero, senza groove, senza macchine, senza trucchi.

“Una band che suona davvero, in studio come nei live, oggi è una novità. O quantomeno è una anomalia. Del resto il rock, il genere che, in tutte le sue sfumature, pratichiamo da circa quarant’anni, oggi è la nuova musica classica, ovvio che ci si applichi a certi dettagli come il suonare”. Questa faccenda del rock come nuova musica classica diventerà il tormentone del ritorno dei Decibel, sembra ovvio. Perché giustamente i tre ragazzotti in questione fanno notare come oggi tra generazioni gli adulti usino il rock per rivendicare la propria appartenenza culturale, cui i giovanissimi contrappongono Justine Bieber o Fedez, Dio ce ne scampi, tanto quanto un tempo i loro genitori ascoltavano classica, con loro a mettere sul piatto i Black Sabbath, il tutto per compiere una rivoluzione.

Tutta l’operazione Noblesse oblige, lanciata dal singolo My My Generation, sarà incentrata su questo concept, con l’album disponibile in una prestigiosa e costosa versione cofanetto, con tutti i vecchi vinili della band, comprese rarità, poster, book fotografico e ovviamente cd. Con concerti portati nei teatri e nei locali, non certo nelle piazze. Pubblico selezionato e attento. Del resto le canzoni dell’album, diventato tale in corso d’opera, suonando con gusto in studio, richiedono attenzione. O meglio, le si può ascoltare con disattenzione, muovendo il piede, ondeggiando la testa, a volte rallentando i battiti del cuore, come succede con la musica di qualità, ma se si ascolta bene, a luci spente in cameretta (cioè trovando quello che oggi, da adulti, è il corrispettivo della nostra cameretta), si noteranno citazioni, arzigogoli, suoni, parole che meritano qualche ora del nostro tempo.

Per i più giovani, con l’invito scontato di andare a sentire i Decibel dal vivo, perché questi signori di sessant’anni sul palco diventano animali fantastici, altro che J.K. Rowling, consiglierei di partire proprio dal singolo My My Generation. Fate così, prendete carta e penna e segnatevi tutti i nomi che la band sciorina nel finale della canzone, come un mantra, o come un lungo omaggio agli ispiratori. Segnatevi quei nomi e poi, ascoltato con attenzione tutto Noblesse oblige, andatevi a cercare chi sono quei nomi. Dai Ramones ai New York Dolls, dai Sex Pistols agli Stranglers, via via fino a quegli Sparks, al cui concerto questa macchina splendida si è rimessa in moto. La musica è cultura, ragazzi, cultura e divertimento, i Decibel sono tornati per ricordarcelo.

L'articolo Decibel, Enrico Ruggeri torna con la sua band: “Il rock, la musica che facciamo da 40 anni, è oggi la nuova ‘classica'” proviene da Il Fatto Quotidiano.

Andrea Damante, l’ex tronista di Uomini e Donne (già dj) pubblica un singolo che fa venire voglia di asportarsi i timpani

$
0
0

Le notizie sono due. Primo, l’ex tronista di Uomini e Donne, già dj, diventa cantante e pubblica un singolo electropop dal titolo Always che verrà distribuito in edicola col suo calendario e un suo poster. Secondo, forte dei rudimenti medici e chirurgici acquisiti dall’aver visto tutte le stagioni di E.R. medici in prima linea, Dottor House e Grey’s Anatomy, grazie a un taglierino e un ferro da lana mi sono asportato i timpani, e ora soffro molto di meno.

Perché Always, la canzone con cui l’ex tronista tenta la conquista delle nostre charts, è una canzone, chiamiamola così, di una bruttezza al limite dell’imbarazzante (e un video, se possibile, anche peggiore). Di più, è la vittoria di Maria De Filippi sul mondo, il suo modo di umiliarci, deriderci, irriderci. Non solo prima ha reso accettabile ai più un immaginario tamarro fatto di muscoli gonfiati, ciuffi tenuti su col gel, nel 2017, Cristo Santo, e di occhi languidi che all’occorrenza si riempiono di lacrime, ma poi ha compiuto il suo gesto definitivo lasciando che tanta tamarraggine invadesse anche il mondo della musica, Adrea Damante kills.

Perché uno può anche dire che esiste tutto un mondo sonoro cui l’ex tronista guarda chiaramente, da Enrique Iglesias a un certo Justin Bieber, ma a parte il fatto che già quei nomi spingerebbero chiunque a abusare di superalcolici in un contesto anche vagamente razionale, qui siamo di fronte a un caso fallitissimo di emulazione. Qualcosa di nuovo, non ancora decodificato. Perché se il trash, come diceva Tommaso Labranca, è l’emulazione fallita dell’alto, cosa sarà mai l’emulazione fallita del basso, come nel caso in questione?

Una canzone inconsistente, con tanto di intermezzo clash, accompagnato da immagini pseudoviolente. Una roba che la senti e ti viene da rivalutare la discografia completa di Tiziana Rivale, sempre che ne esista una. Un inglese incomprensibile, appoggiato su una base che vorrebbe, forse, ma sicuramente non può. Dove i suoni di oggi vengono accennati, come di un bambino che al parco prova a fare un colpo visto in tv messo in atto da Messi e poi si ritrova a cadere per terra, inciampato sul pallone comprato all’edicola.

Nel video, però, ci fanno sapere, non c’è la storica fidanzata de nostro, ora considerata per ragioni che toglierebbero il sonno a Stephen Hawking una influencer, tale Giulia De Lellis. La faccenda, cioè l’assenza della De Lellis in un video con una trama che neanche David Lynch dopo una gara di resistenza a base di peyote con Alejandro Jadorowski, in cui si dovrebbe parlare d’amore, sembra di gran rilievo. Il che, conviverete con me, toglie quel residuo di speranza nell’umanità. A questo punto che quel ciccione del dittatore coreano ci bombardi, e finiamola qui, peggio di così non potremo sicuramente finire.

L'articolo Andrea Damante, l’ex tronista di Uomini e Donne (già dj) pubblica un singolo che fa venire voglia di asportarsi i timpani proviene da Il Fatto Quotidiano.

I talent show sono morti: dal concerto annullato di Elodie alle non pervenute Gaia, Eva e Roshelle

$
0
0

La notizia è in apparenza semplice. Il concerto di Elodie previsto per il 26 aprile all’Alcatraz di Milano è stato cancellato per motivi tecnici e organizzativi. Lo dichiara il sito di Friends and Partners, che lo organizzava.

Per i più distratti, Elodie è la ragazza coi capelli rosa che l’anno scorso è arrivata seconda a Amici, dietro il gigante di colore Sergio Sylvestre, e che quest’anno, insieme al gigante in questione, ha calcato il palco dell’Ariston tra i Big del Festival della Canzone Italiana di Sanremo. Il gigante in questione, pochi mesi fa, aveva visto annullare le sue date live per presunti impegni di lavoro, per altro.

Ecco. Veniamo alla vera notizia, i talent sono morti. Ora del decesso, etc. etc. Lo sono da tempo, in realtà, ma oggi lo sono in maniera acclarata. Perché dai talent, a parte share televisiva, almeno nel caso di Amici, in partenza proprio questa settimana, non arriva più nulla. Non intendiamo nulla di interessante artisticamente, perché su questo forte, a dire il vero, si è sempre visto pochino, ma anche da un punto di vista discografico.
Servono prove?
Eccole.

L’ultima edizione di Amici è stata vinta da Sergione. Bene. Due album tirati fuori in pochi mesi, una manciata di copie vendute. Succede così anche agli altri artisti, dirà qualcuno. Vero. Però a parte finire di diritto, vai a capire perché, tra i Big di Sanremo, Sergio non ha neanche attività live. Zero concerti con biglietti venduti. Tradotto, nessuno pagherebbe per andarla a sentire cantare in un locale, figuriamoci in un palasport. Idem Elodie, che per di più, scopriamo, ha rotto anche con la sua manager, Francesca Savini, a sua volta manager di Emma. Emma, è noto a chi segue questo mondo, ha adottato Elodie, ha prodotto i suoi due album col suo produttore di fiducia Luca Mattioni. Ora, si suppone, bye bye. Del resto non è che le cose alla bionda vincitrice di Amici e Sanremo siano andate tanto meglio, album e tour che non hanno appagato le aspettative, e ora che è fuori dal cast di Amici, si suppone, potrebbe proprio scomparire. Lele, arrivato terzo, ha vinto Sanremo Giovani, ma il suo album è già da una settimana fuori dalla Top 100. Classifica dove son ancora presenti album di quarant’anni fa dei Pink Floyd. È stato bello conoscerti, Lele, addio.

Guardando alle ultime edizioni, poi, pure peggio. La Iurato è finita a fare le imitazioni a Tale e Quale. I Dear Jack credo si siano persi per sempre, mentre il loro ex front leader, Alessio Bernabei, miracolato da Carlo Conti che lo ha voluto tre volte di fila al Festival, ha racimolato il più alto numero di stroncature della storia della musica leggera, tutte meritate. I Kolors, che vendere hanno pure venduto, sono rimasti incastrati nel refrain della loro sola canzone, e sputi sulle telecamere a parte non hanno fatto altro di significativo. Poi ci sono gli altri, più indietro nel tempo, Moreno all’Isola dei Famosi, Scanu a leggere i tweet a Ballando con le stelle, Marco Carta scomparso nel nulla. Si salvano i soliti nomi, Emma, finché dura, la Amoroso, Annalisa. Stop.

Sul fronte X Factor, se possibile, è anche peggio.
Vediamo le ultime edizioni. I quattro finalisti del 2916 sono giustamente scomparsi. I Soul System, vincitori, sono finiti a Sanremo ospiti di Sergio e hanno messo insieme la più misera figura di merda della storia, andando fuori tempo in un brano che parlava di come gli artisti di colore hanno il ritmo nel sangue. Roshelle, Gaia e Eva non pervenute, e probabilmente faticherete anche a ricordarvi le loro facce. Gio Sada, vincitore dell’edizione 2015 è finito a doppiare un cane in un cartoon. Fragola è sparito nel nulla.

Quest’anno, Sanremo, doveva sancire il ritorno di Giusy Ferreri, reduce dalla mega hit Roma- Bangkok e la messa a fuoco di Chiara, la tipa goffa che ha vinto anni fa ma poi è finita a fare la pubblicità della Tim. Entrambe hanno toppato. Giusy è stata eliminata dal Festival e il suo album non è entrato in Top 10 e sta già scivolando verso il basso. Chiara, prodotta da Mauro Pagani, ha tentato la carta Arisa, fallendo. Singolo sanremese già uscito dalla Top100, album entrato al decimo posto e dopo due settimane già verso la quarantesima posizione. Ci si vede alla sagra della porchetta a Ariccia, forse.

Unico dei talent a aver azzeccato un lavoro Michele Bravi, cioè quello che il mondo dei talent aveva dato per morto e che per tornare a fare musica si è dovuto reinventare come Youtuber.

Tutta gente, questa citata, che non riempie un locale a pagamento manco se viene giù la Madonna e duetta con loro, per altro. Gente viva solo per poterne parlare quando sta per partire una nuova edizione di un talent. Così è per Amici, con un cast nuovo di zecca, direttori nuovi, almeno in parte, con Elisa da sola da una parte, senza più Emma, e Morgan a sostituire Nek e J Ax, giudici nuovi, Ambra, Ermal Meta, Daniele Liotti e Eleonora Abbagnato, media partner nuovo, con le radio Mediaset, 105 in testa, al posto di Rtl 102.5. Anche questo cambio non sembra stia per ora funzionando a dovere, dicono i rumors. Perché le radio Mediaset fanno sì numeri importanti, ma hanno più teste pensanti, quindi non agiscono di concerto, il che si traduce con una copertura assai minore e meno minuziosa di quanto la radio di Suraci non facesse in passato. Sembra che Maria De Filippi, cui questo turn Over è stato imposto dall’alto, non abbia gradito, perché le radio, almeno durante la messa in onda del programma, servono a tenere in vita la fuffa che passa dalla televisione.

Sicuramente il cambio di media partnership non ha giovato a Elodie, nei cui manifesti campeggiava il marchio di Radio 105. Di lei, con buone probabilità, sentiremo parlare alla prossima edizione di Tale e Quale Show, parrucche per coprire i suoi caratterizzanti capelli rosa ne hanno parecchie.

L'articolo I talent show sono morti: dal concerto annullato di Elodie alle non pervenute Gaia, Eva e Roshelle proviene da Il Fatto Quotidiano.

Le battute sull’ora legale? Ecco perché hanno rotto i c*******

$
0
0

Diciamolo una volta per tutte, la battuta del vecchio Cuore sull’ora legale e sul panico nel partito socialista ha fatto ridere parecchio, ma a distanza di venticinque anni e passa, magari, ha anche un po’ rotto i coglioni. Come hanno rotto tutte le lamentele del caso. È vero, arriva l’ora legale, si spostano avanti le lancette, si dorme un’ora in meno. Un’ora in meno in primavera, quando già l’abbiocco sarebbe più che naturale, vuoi per il cambio di stagione, vuoi per il primo caldo, vuoi per quella strana fase dell’anno, lontana dalle feste di Natale quanto da quelle estive. Tutto vero, tutto legittimo, ma siccome l’ora legale arriva ogni anno, magari star lì a farne un caso di stato, a gridare lamenti al cielo manco fosse arrivata Glenn Close e ci avesse bollito il coniglietto da compagnia, sembra un po’ troppo.

Prendiamola dal verso giusto. Arriva l’ora legale, farà buio più tardi. Se non siete tra quanti ne fanno una questione di bollette (beati voi), fatene almeno una faccenda di buonumore. Il sole fino a ora di cena, le giornate che si allungano a prescindere dall’ora legale, i cambi degli armadi da fare. Ok, la faccenda dei cambi degli armadi, magari, al momento non vi sembrerà qualcosa di così positivo, che con ogni probabilità vi porterà via un fine settimana, ma volete mettere andare in giro in t shirt e calzoni corti invece che col cappotto e gli stivali? Anche a livello estetico, per dire, tutti avremo molto di più da ammirare in giro, che si tratti di bicipiti o di scollature. Sta per arrivare l’estate, e anche se per una notte abbiamo dormito un’ora in più ce ne possiamo fare una ragione. Ormai non dobbiamo praticamente neanche più spostare le lancette, che buona parte degli aggeggi con cui ci teniamo aggiornati sul l’orario lo fanno da soli, dallo smartphone ai tablet. Quasi viene da provare nostalgia per quando dovevamo ricordarlo di farlo prima di andare a dormire, pena arrivare in ritardo la domenica da qualsiasi parte, che sia la messa o la cena a casa della morosa, le paste e il vino da non dimenticare in auto.

Ecco, mettiamola così, con la fine del partito socialista, quello dileggiato da Cuore proprio a causa dell’ora legale, se n’è andata anche la fascinazione del cambio dell’ora. Ora ci si sveglia la domenica, giusto un filo più stanchi, si ha fame dopo per qualche giorno, si vive come fossimo in un paese straniero, ma non troppo, poi di colpo ci si abitua, arriva l’estate, le zanzare e il troppo caldo di cui lamentarci. Ma passa anche quello, tornerà un altro inverno, cadranno mille petali di rose, la neve coprirà tutte le cose, e noi riprenderemo a deprimerci al caldo, sperando torni presto il sole, l’ora legale e le battute sui socialisti.

L'articolo Le battute sull’ora legale? Ecco perché hanno rotto i c******* proviene da Il Fatto Quotidiano.


Valeria Bruni Tedeschi, perché sapere che il suo discorso ai David è virale spinge verso una depressione cosmica

$
0
0

Siamo messi benissimo. Sì, se il discorso di Valeria Bruni Tedeschi di ieri, alla premiazione dei David di Donatello, rischia di diventare il nostro I have a Dream, almeno in scala ridotta, siamo davvero messi benissimo. Perché tutti noi ci siamo abbeverati alle parole di Martin Luther King, tutti noi ci siamo commossi per lo Steve Jobs che diceva di rimanere affamati e folli, tutti noi ci siamo sentiti delle merde, sì delle merde, per la tizia che ai Ted’s ci ha spiegato cosa significa convivere con l’handicap. Discorsi che sono entrati, in epoche diverse, in modalità diverse, nell’immaginario collettivo. E a noi cosa tocca? Un’attrice che fa il suo mestiere su un palco. Anzi, peggio, una attrice che fa l’attrice su di un palco in cui viene premiata come attrice. O peggio ancora, un’attrice che gioca quella emotivamente sballata su di un palco in cui viene premiata come attrice per aver interpretato una donna con problemi mentali.

Ma andiamo con ordine, se si può citare l’ordine in mezzo a una situazione che ha nella confusione, vera o presunta, la sua essenza. Ieri ci sono state le premiazioni dei David di Donatello. Un programma tv, questo sono le premiazioni dei David di Donatello, di una noia mortale. Roba che li guardavi e ti veniva da cercare su Rai3 le lezioni di fisica per provare una scossa di adrenalina. Uno spettacolo noioso, in cui i primi ad annoiarsi, in maniera per niente carina verso il pubblico da casa, erano attori e registi in sala, manco fossero stati in miniera a controllare se il canarino nella gabbietta era ancora vivo o se nel mentre fosse sopraggiunto il grisù a porre fine alle loro sofferenze. Una roba davvero brutta. Finché sul palco non è salita lei, premiata, magari anche giustamente, per il personaggio interpretato nel film di Paolo Virzì, La pazza gioia. Valeria Bruni Tedeschi ha vinto come migliore attrice protagonista e, come a voler portare su quel palco il suo personaggio, ha iniziato un discorso di ringraziamento che ha alternato picchi di euforia a picchi di commozione. Un lungo elenco di ringraziamenti, da Natalia Ginzuburg all’amica di infanzia che le ha offerto un po’ di focaccia il primo giorno di scuola. Un guazzabuglio di parole, di lacrime, di risate isteriche, di parole farfugliate dietro a dei fogli in cui aveva appuntato i nomi da ringraziare. Un discorso che è diventato virale, per motivi che non solo riempiono di meraviglia, ma giustificano un atteggiamento nichilista nei confronti dell’umanità, probabilmente indegna di tenere in pugno il destino del pianeta Terra.

Intendiamoci, che senza di lei la premiazione dei David, condotta piattamente da Alessandro Cattelan, sarebbe stata il corrispettivo televisivo di una colonoscopia non ci sono dubbi. Ci sono invece grossi dubbi sul fatto che quel che abbiamo visto, e con noi i colleghi della Bruni Tedeschi lì in sala, sia stato frutto di un vero sentire, e non, piuttosto, un copione portato a casa con maestria. Perché se la Bruni Tedeschi è così come l’abbiamo vista ieri, in bocca al lupo al prossimo regista che si prenderà agio di dirigerla. Se invece, come a chi scrive è sembrato, e anche a qualcuno dei presenti (si pensi alla faccia di Carlo Verdone), Valeria Bruni Tedeschi ci ha semplicemente rifilato un discorso a effetto, un discorso sull’emotività dell’attrice, sull’essere senza pelle, sulla gratitudine rivolta a chiunque, dalla mamma alla vicina di casa, beh, diciamolo, vedere quel che oggi in molti stanno dicendo intorno a quelle parole ci spinge verso una depressione cosmica che Leopardi levate.

Non ambivamo certo, dopo tutto quello che avevamo visto è già tanto se non eravamo svenuti sul divano, a un discorso epico come quelli citati in esergo, ma magari qualcosa di un po’ più di spessore, perché, anche questo va detto, non è che la Bruni Tedeschi ci abbia regalato perle di saggezza. Ha ringraziato un po’ di gente, vero, anche nei nomi della letteratura e dello spettacolo, ha poi fatto un cenno agli uomini della sua vita, sticazzi, ma volete mettere l’effetto dirompente del produttore di La La Land che, con la morte negli occhi, annuncia che il premio l’aveva in effetti vinto Moonlight. Tutta un’altra storia.

Comunque, viviamo in un periodo di vacche magre, c’è la crisi, la disoccupazione è ai suoi massimi, il futuro appare incerto, forse dobbiamo saperci accontentare anche di quel che passa il convento. Ne approfitto per ringraziare i miei genitori che mi hanno dato modo di studiare, Fabio che alle elementari mi bullizzava ben prima che si parlasse di bullismo, perché così mi ha spinto a cercare nella scrittura uno sfogo contro la frustrazione, Nanni Balestrini per i suoi libri, Uma Thurman per i suoi piedi e Valentina Nappi, lei sa bene perché.

L'articolo Valeria Bruni Tedeschi, perché sapere che il suo discorso ai David è virale spinge verso una depressione cosmica proviene da Il Fatto Quotidiano.

Bob Dylan passa da Stoccolma e già che c’è ritira il Nobel. Ecco perché la sua condotta da caz**** cambia per sempre il galateo dei premi

$
0
0

Nanni Moretti fatti da parte. Il tuo abusato “Mi si nota di più se non vengo o se vengo e me ne sto in disparte,” ormai, è roba del secolo scorso. E a sancirlo, urbi et orbi, è uno che del secolo scorso, o almeno della sua ultima parte, è stato cantore indiscusso, Bob Dylan. Perché lui, il Menestrello di Duluth, e non sapete che piacere possa dare tirare in ballo la parola Menestrello in un articolo come questo, ha deciso che lo si nota di più se non risponde al telefono ai tizi del Nobel che vogliono dargli il premio per la Letteratura, se poi alla fine risponde, accetta il premio Nobel dopo un mese ma dice di non poter andare alla cerimonia per impegni precedentemente presi, alla fine manda Patti Smith a cantare al posto suo, infila la dicitura “vincitore del Premio Nobel per la Letteratura” nelle note biografiche del suo prossimo libro, poi la fa cancellare, che non ce n’è bisogno e poi, in conclusione, va a ritirare il premio, sì, ma quando gli pare e dove gli pare, e soprattutto, senza testimoni a poterlo raccontare.

La storia la sapete tutti, inutile raccontarla. Bob Dylan, per anni additato come il prossimo vincitore del Premio Nobel per la Letteratura vince il Premio Nobel per la Letteratura nel 2016. Lo annuncia l’Accademia del Nobel di Stoccolma, che da quel momento, novembre scorso, comincia disperatamente di contattare il cantante americano, senza riuscirci. Dopo circa un mese di telefonate a vuoto, Bob risponde e accetta. Poi però ci tiene a far sapere che non andrà a ritirare il premio, non terrà la lectio magistralis, insomma, ha da fare.

Di poche ore fa la notizia che alla fine Bob incontrerà i tipi del Nobel, e li incontrerà a Stoccolma, cioè dove sarebbe dovuto andare a dicembre. La cosa buffa, molto buffa, è che Bob Dylan sarà a Stoccolma per dei concerti fissati da tempo, non certo per il Nobel, e incontrerà gli accademici in sede privata, senza media a testimoniare il fatto. Ce lo fa sapere Sara Danius, la stessa portavoce che ha dovuto raccontare al resto del mondo di come a Bob, in fondo, del Nobel fregasse poco o niente. Il fatto è che ci sono circa ottocentrocinquantamila dollari che aspettano di essere ritirati da Robert Zimmerman, questo il vero nome di Dylan, previo discorso da tenersi di fronte agli accademici. L’Accademia aveva fatto sapere che sarebbe andato bene anche un video, un discorso scritto, improvvisato. Ci mancava poco che proponessero qualcosa su Facetime, e morta lì.

Dal che si capiscono un po’ di cose. Prima, a Bob Dylan, in fondo, del Nobel non frega nulla. Lui è Dylan, ha scritto la storia della musica popolare americana e influenzato quella di buona parte del mondo occidentale, lo stesso non si può certo dire dei colleghi che l’hanno preceduto, almeno recentemente, da Svjatlana Aleksievic a Patrick Modiano, passando per LeClezio o Herta Muller, per citarne alcuni. Seconda, al Nobel tengono a Bob Dylan molto più che al loro amor proprio, e sono disposti a farsi trattare male peggio che nella seconda parte di Teorema di Marco Ferradini. Terza, col suo modo da cazzone impenitente Bob Dylan manda a casa buona parte delle rockstar passate, presenti e future, dimostrando, ce ne fosse bisogno, che lui è Bob Dylan e gli altri non sono nessuno. Ultima, ce ne fosse bisogno, Dylan riscrive il galateo dei premi, facendo passare per buono qualsiasi tipo di comportamento che si trovi tra i paletti, “vengo, grazie di avermi invitato” e “mandate il bonifico e non cagate il cazzo”.

L’anno prossimo, come per chi dovrà sostituire Carlo Conti a Sanremo, dopo i numeri da televisione bulgare avuti con l’ultimo Festival, il vincitore del Festival non ha altra scelta, deve fare qualcosa di davvero eclatante per farsi notare e restare nella storia. O uccidere la regina di Svezia, come Sid Vicius in La grande truffa del rock’n’roll mentre canta My Way di Sinatra, o, magari, andare ringraziando. La vera originalità, a volte, è essere normali, verrebbe da dire, a patto che poi si sia scritto Like a Rolling Stone, Blowin’ in the Wind e Knockin’ on Heaven’s Door.

L'articolo Bob Dylan passa da Stoccolma e già che c’è ritira il Nobel. Ecco perché la sua condotta da caz**** cambia per sempre il galateo dei premi proviene da Il Fatto Quotidiano.

Fausto Mesolella, addio al chitarrista della Piccola Orchestra Avion Travel: ‘Na stella (da ascoltare) per ricordarlo

$
0
0

Quando muore un artista il mondo si impoverisce. Sembra una frase fatta, ma nasconde una grande verità. Perché l’arte arricchisce, nutre, dona vita. Quando oltre che un artista muore un grande uomo, quindi, il mondo non può che piangere forte. Ieri se n’è andato un grande artista e un grande uomo, Fausto Mesolella, e l’ha fatto all’improvviso, tenendo fede a quanto si era da sempre prefisso, andarsene senza abbandonare la sua chitarra.

Peccato che l’abbia fatto a soli sessantaquattro anni, quando ancora stava impegnato in mille impegni. Perché Fausto Mesolella, chitarrista, compositore, agitatore culturale come pochi in questo nostro paese, fermo non ci sapeva proprio stare. Da quando, negli anni Sessanta, ha imbracciato per la prima volta la chitarra, ha sempre suonato, finendo per diventare, giustamente, un punto di riferimento per la nostra comunità musicale. Divenuto famoso come chitarrista della Piccola Orchestra Avion Travel, con la quale vinse anche un Sanremo, nel 2000, Mesolella ha in realtà regalato (dire prestato, come usa in musica, sarebbe un grave errore nel suo caso, uomo generoso quale era) la sua arte con tanti nomi, anche distanti tra loro. Lo abbiamo potuto apprezzare al fianco di Bocelli, per il quale ha scritto, di Gianna Nannini, di Samuele Bersani, di Francesco Tircarico, di Patrizia Laquidara, di Maria Nazionale, da lui portata sempre sul palco di Sanremo, di Nada, Fiorella Mannoia, Mannarino, col quale va in tour, via via fino a Stefano Benni e Raiz, coi quali aveva collaborato per le sue due ultime uscite discografiche. Proprio l’album con Raiz, Dago Red, gli fece vincere una meritato Premio Tenco, lui che così tanto ha fatto per la musica d’autore. Ma i nomi dovrebbero essere molti di più, come dovrebbe essere molto il dolore di chi ama la musica per la sua morte.

Fausto Mesolella si è speso tanto per gli altri artisti, specie per i giovani, come la sua esperienza di direttore artistico del Premio Bianca D’Aponte, manifestazione legata al cantautore femminile e tante altre esperienze dimostrano. La sua morte è davvero una grande perdita. Per ricordarlo andatevi a sentire Na stella, da lui scritta per Gian Maria Testa, scomparso esattamente un anno fa. E l’anno prossimo, se possibile, Dio della musica, togli dal calendario il 30 marzo.

L'articolo Fausto Mesolella, addio al chitarrista della Piccola Orchestra Avion Travel: ‘Na stella (da ascoltare) per ricordarlo proviene da Il Fatto Quotidiano.

Dear Jack, Leiner esce dal gruppo. A sostituirlo l’unico in grado di cantare male come lui

$
0
0

Leiner Riflessi è uscito dal gruppo. Che sia maledetto Enrico Brizzi e il giorno in cui, nei primi anni Novanta, ha scritto il suo ormai classico Jack Frusciante è uscito dal gruppo. Che sia maledetto perché da allora, 1993, ogni volta che qualcuno esce da una band, si tratti di John Frusciante che lascia i Red Hot Chili Peppers, era lui il Jack del titolo del romanzo in questione, o Leiner che esce dai Dear Jack, uno si sente in dovere di citare sto cazzo di libro. Il punto è che nel caso dei Dear Jack la notizia sarebbe stata se Jack fosse rimasto nel gruppo, perché la band vincitrice morale di non so neanche quale edizione di Amici, credo quella d tre anni fa, vinta da Deborah Iurato, recente vincitrice del prestigiosissimo Tale e Quale Show, ha cambiato più frontman dei Nomadi, e i Nomadi hanno quantomeno scritto qualche pagina della storia della nostra musica leggera e sono sulla piazza da qualche era geologica.

Leiner, per intendersi, è il ragazzo di colore uscito da una delle scorse edizioni di X Factor, credo quella vinta da Fragola, tanto son tutte uguali. Il sottolineare che Leiner è di colore è la constatazione che, al di là dei cliché, esistono al mondo anche cantanti di colore stonati e che non sanno andare a tempo, come in effetti i recenti vincitori di X Factor, i Soul System, hanno dimostrato all’ultimo Festival di Sanremo, quando hanno martoriato con Sergio Sylvestre, vincitore dell’ultima edizione di Amici, Vorrei la pelle nera di Ferrer.

Ecco, Leiner ha la pelle nera, ma canta come un caucasico stonato e balla come un caucasico che non sa andare a tempo. Del resto si è trovato l’anno scorso a sostituire Alessio Bernabei, un altro che in quanto a saper cantare parliamone, uscito a sua volta dal gruppo. Lui, Alessio Bernabei, ha deciso di scrivere una autobiografia, per raccontare dei suoi primi quindici anni di vita, e ha deciso di intitolarla facendo riferimento proprio a Jack Frusciante è uscito dal gruppo. Ora a lasciare il gruppo è lui, come in uno stillicidio. Ogni anno se ne va qualcuno, manco ci fosse in ballo il futuro di Connor McLeod, l’highlander.

Leiner se ne va e a sostituirlo arriva il solo capace di cantare male e ballare male come lui, nessuno. Da cinque i Dear Jack diventano quattro. Ovviamente nessuno conosce i nomi dei quattro rimasti, tanto al prossimo che lascerà la band si dirà di nuovo che a essere uscito dal gruppo è stato Jack Frusciante, mica serve impararlo. I Nomadi nel frattempo continuano a fare dischi e concerti, lo tengano presente i quattro Jack rimasti in formazione. Finché c’è vita c’è speranza.

L'articolo Dear Jack, Leiner esce dal gruppo. A sostituirlo l’unico in grado di cantare male come lui proviene da Il Fatto Quotidiano.

Avete presente Despacito di tal Fonsi? Ecco perché non dovreste fare gli snob quando la sentite

$
0
0

Io non vi capisco proprio. Qui siamo arrivati al triplo salto mortale. Perché capisco, a dire il vero poco, che vi piaccia sempre star lì a lamentarvi di tutto. D’inverno che fa un freddo becco e d’estate che si suda e manca l’aria. Capisco che appena la temperatura si abbassa di un grado correte a tirare fuori la giacca a vento e gli scarponi e per contro, al primo raggio di sole non resistete alla tentazione di infilare pareo e infradito anche se lavorate al centro di Milano. Capisco tutto, poco. Ma tanto fatico a seguire i vostri ragionamenti quando cercate di convincermi che sia cosa buona e giusta lamentarsi delle scollature, dei piedi e le gambe nude, a volerla vedere dall’altra parte, dei bicipiti e degli addominali scolpiti. E non vi seguo proprio per niente quando di colpo diventate tutti esteti esistenzialisti e, alla prima hit tamarra sfornata da Enrique Iglesias o Fonsi di colpo rimpiangete l’inedito mai arrivato della formazione originaria dei Sigur Ros o prospettiate di combattere la musica latina a suon di Joy Division e Bauhaus.

Ora, non voglio dire che la musica latina mi faccia impazzire. Per spiegarvi il livello di sopportazione che nutro per questa musica è lo stesso che provo per i programmi della Perego. Non è questo il punto. Il punto è che, se davvero tutti voi che al primo suono reggaeton o latino che esce dalla cassa della radio ferma di fianco a voi al semaforo scattate indignati manco aveste appena visto una puntata di Report che vi spiega come in effetti dietro la musica latino americana ci sia lo sfruttamento dei bambini di quel determinato paese del terzo mondo o che in realtà sia fatta con sostanze nocivissime per il nostro corpo (oltre che per il nostro spirito), ecco se davvero tutti voi che dimostrate questo odio atavico per la musica di Fonsi (vedi la sua Despacito) e affini vi applicaste con la stessa tenacia con cui ci scassate la minchia nel farci sapere quanto odiate la musica di Fonsi per spingere musica migliore, o addirittura per produrre musica migliore, se le cose andassero realmente così, noi vivremmo probabilmente in un mondo migliore. O almeno in un mondo con una colonna sonora estiva migliore.

E anche con un tasso di noia decisamente più alto. Perché diciamolo apertamente, la musica di Fonsi, Enrique Iglesias, Frank Daddy e affini sarà tamarra, sarà iperleggera, sarà buona solo per l’estate, ma è decisamente capace di metterci di buon umore, cosa che i brani dei già citati Sigur Ros non riuscirebbero a fare neanche volendo. Non è un caso che queste canzoni, fatte a tavolino quanto vi pare, studiate per far levare sulla pruderie e su quella forma neanche troppo celata di eccitamento che l’estate, con le sue scollature e bicipiti scolpiti in bella mostra, porta giocoforza con sé, insomma, costruite per diventare delle hit senza trovare ostacoli sul proprio cammino, ecco, non è un caso che queste canzoni piacciano a così tanta gente. Gente normale, certo, o per dirla con una certa radio, very normal people, ma gente che fa massa, che sposta numeri, che determina il successo o l’insuccesso di un  brano.

Non è musica di qualità?

Diamo una definizione di qualità. E se per musica di qualità si intende qualcosa di complicato che necessita un grado di attenzione troppo elevata o che pretende, magari anche legittimamente, che chi la ascolta debba per forza far ricorso alla razionalità oltre che alla pancia, beh, allora gridiamo a gran voce lo slogan di Boris: la qualità ci ha rotto il cazzo. E se volete, se vi piace pensarlo, gridatelo andando a ritmo con una di quelle canzoni tamarre che fanno venire voglia di fare l’amore, di ubriacarsi di birra o più semplicemente di ‘non penare’. La qualità ci ha rotto il cazzo, o meglio i pendejos, claro que sì.

L'articolo Avete presente Despacito di tal Fonsi? Ecco perché non dovreste fare gli snob quando la sentite proviene da Il Fatto Quotidiano.

Fabri Fibra, il suo Fenomeno è qualcosa che lo avvicina al Vasco Rossi migliore

$
0
0

Partiamo da un dettaglio. È la prima volta in undici anni, tanti ci separano da Tradimento, primo album di Fabri Fibra uscito per una major, la Universal, che esce un lavoro del rapper marchigiano sprovvisto del Parental Advisory. Per capirci, il Parental Advisory è quell’adesivo su cui sta scritto ai genitori di prestare attenzione, perché nell’album sono contenuti testi espliciti. Un dettaglio, questo, significativo, non fosse che non risponde affatto al vero.

Fenomeno, questo il titolo del nuovo lavoro di Fibra, è un album ‘esplicitissimo’, anche se le parole esplicite che dice, le tante parole esplicite che dice, non sono necessariamente volgari, come magari è successo in passato. Fenomeno è un album maturo, questo sì, ma è tagliente come forse non mai, proprio in virtù di questa maturità, anche anagrafica, di Fibra. Chiaramente, stavolta non si parla di “mongoloidi” o di scoparsi una ragazza ubriaca approfittando delle mestruazioni per poterle venire dentro senza correre rischi di metterla incinta, ma forse anche perché il terreno di gioco è più alto, il risultato è davvero sorprendente, fenomenale.

Fabri Fibra è un esistenzialista. Un esistenzialista che si guarda intorno e non fa sconti a nessuno, a partire da se stesso passando alla sua famiglia, ai suoi colleghi, alla società. Tutti morti, senza feriti o prigionieri. Tolta l’ostilità di un certo linguaggio, volutamente sgradevole, come nei casi su citati, Fibra riesce a portare a casa testi decisamente incisivi. Nel farlo, oggi, decide di fare i conti con la musica che gira intorno, compresa certa musica di merda, come la trap (non bastava la Dark Polo Gang?), riuscendo però nell’impossibile impresa di farsi ascoltare.

Il nemico numero uno di Fibra, un po’ come succedeva all’Eminem che una quindicina d’anni fa, poco più, ha portato il rap a diventare popolare anche da noi, è l’ipocrisia. Su quella si scaglia con violenza, menando alla cieca. Lo dico consapevole di essermi inerpicato su un burrone, a rischio di cadere sulla scogliera sottostante. Fenomeno di Fabri Fibra è qualcosa che lo avvicina al Vasco Rossi migliore. Lo è per scelta artistica, perché stavolta Fibra opta per liriche meno complesse, più semplici e leggibili, comprensibili al primo passaggio, e lo è perché Fibra come Vasco sta passando dall’essere un “cattivo maestro” a quasi un filosofo che preferisce guardarsi dentro più che concentrarsi troppo sull’esteriorità, conscio che la guerra è già stata persa. Traccia dopo traccia l’esterno va scomparendo, e a uscire fuori è Fabrizio Tarducci, vero protagonista delle ultime due canzoni in tracklist.

Una sorta di viaggio che parte dalla superficie e arriva al cuore, sanguinante. Sono proprio Nessun aiuto e Ringrazio le due canzoni più potenti della covata, anche se sarà ahinoi Pamplona, che vede Fabri Fibra in compagnia degli onnipresenti Thegiornalisti, a diventare la hit delle hit di questo lavoro e probabilmente dell’estate. Nessun aiuto e Ringrazio, due canzoni nelle quali parla del rapporto con suo fratello Nesli e con sua madre in termini talmente dolorosi da rendere i vari “mongoloidi” e affini del passato quasi gradevoli. Perché fa più male guardargli dentro che sentirlo dire “cacca” e “pipì”, come sempre succede. Una vera botta sui denti, che ci mette a disagio, come in effetti l’arte dovrebbe sempre fare. Un notevole passo avanti, quindi, che è in qualche modo quanto di più lontano dall’ostico Squallor, ultimo lavoro del nostro, tanto quanto la sua logica conseguenza. Basi più dritte, volendo più leggere, sopra le quali Fibra fa Fibra, col suo flow riconoscibilissimo. Un flow, ma soprattutto una cifra, la sua, che oggi sembra aria pura in mezzo a un inquinamento sonoro che ci sta uccidendo.

L'articolo Fabri Fibra, il suo Fenomeno è qualcosa che lo avvicina al Vasco Rossi migliore proviene da Il Fatto Quotidiano.

Amici 2017, un’idea per Maria De Filippi: via un protagonista a puntata e rimane solo lei, come Highlander. Così può salvare un talent morto

$
0
0

Scrivere che i talent sono la morte della discografia, che sono i principali responsabili per la musica di merda che gira in questo periodo, che hanno sulla coscienza la carriera finita o più spesso mai nata di tanti ragazzi che volendo avrebbero pure potuto esprimere il proprio labile talento, avessero avuto il modo di lavorarci su con i giusti tempi, ecco, scrivere tutto questo sta diventando quasi pleonastico (che per chi segue i talent significa “scontato”, “inutile da sottolineare”). Però a volte è bene essere banali, perché in certi casi non c’è altro da dire che le cose più ovvie da dire.

Quindi sì, i talent sono il male assoluto, e chi vi prende parte non ne è ovviamente correo, semmai ne è vittima, più o meno consapevole, ma pur sempre il male restano. Tutto questo per dire che no, non ci dispiace affatto che Morgan abbia già terminato la propria avventura come caposquadra (direttore o come cavolo si chiama quello che sta a capo dei bianchi e dei blu) ad Amici. Né ci spiace che a sostituirlo sia stata chiamata Emma, e chi altrimenti?

Non ci spiace per Morgan perché, seppur consapevoli che proprio i talent ne hanno prosciugato il talento, finendo per renderlo più un divulgatore di belle parole che un musicista e compositore, siamo anche consapevoli che finché continuerà a bazzicare quelle location di speranze per il suo futuro non ce ne sono, perché a stare tra i bimbiminkia, per dirla con parole sue, non c’è proprio niente da guadagnarci. Motivo per cui non ci spiace che a sostituirlo sia Emma, non tanto perché, questa sarebbe cattiveria gratuita, verrebbe da pensare che nata, cresciuta e praticamente sempre vissuta dentro quel nido, lei ai bimbiminkia ci sia ben abituata, quanto perché, i numeri parlano chiaro, senza Amici Emma non esiste. Come certi personaggi di fantasia, anche piuttosto popolari, Emma (non a caso il cognome non viene quasi mai detto, perché lei, a differenza di altri, non si è affatto affrancata dal talent da cui è uscita) si muove a suo agio solo negli studi del talent di Maria. Lì è padrona di casa, lì prende decisioni vincenti, lì è Emma, fuori è una cantante anche con un briciolo di talento nel canto ma poco capace di acquistare tridimensionalità. E allora, nel momento in cui, per la prima volta, Amici perde la sfida con Ballando con le stelle, risultato che, a dirla tutta, era nell’aria da tempo, almeno da quando anche il programma di Milly Carlucci ha deciso di mariadefilippizzarsi, ecco il colpo di genio della De Filippi, fuori Morgan e dentro Emma.

Una scelta da cui escono tutti perdenti, sia chiaro, ma che in qualche modo salva capre e cavoli. Nello specifico, esce sconfitta Maria, che aveva puntato tutto su Morgan come caposquadra (o quel che è), esce sconfitto Morgan, che si trova a lasciare in corsa il programma che al momento è la sua ragion d’essere, esce sconfitta Emma, che come il figliol prodigo della omonima parabola evangelica, torna a casa, senza però essersela spassata in giro per il mondo. Ma al tempo stesso forse si salverà Amici, che decisamente non può permettersi di uscire dal trito cliché del talent che abbassa il livello culturale perché è nel basso livello culturale delle sue proposte che ha sempre trovato il proprio pubblico. E sicuramente si salverà Emma, che almeno per qualche mese non dovrà pensare a entrare nel cast di Tale e Quale Show o dell’Isola dei Famosi per trovare una propria collocazione artistica.

Chi non si salverà siamo noi, anzi no, siete voi, che Amici lo guardate. Perché senza Morgan Amici si impoverisce e perde il solo serio motivo per seguirlo. Vedere come, a fronte di Elisa che come Biancaneve prepara la colazione ai suoi ragazzi con l’aiuto di uccellini cinguettanti e scoiattolini amorevoli, lui, l’ex cantante dei Bluvertigo, entrava nel loft dove si trovano i suoi ragazzi con la stessa grazia con cui Machete fa saltare in aria un deposito di munizioni in un qualsiasi film di Robert Rodriguez.

A questo punto, è un auspicio, c’è da augurarsi che esca di scena anche Ambra, ché meriterebbe ben altro palcoscenico di questo. Maria, questa potrebbe essere un’idea, te la regalo: a ogni puntata se ne va uno dei protagonisti. Nella finale rimani solo tu, manco fossi Conor McLeod. Hai già lo slogan, “Ne resterà solo uno”, ti manca di assoldare i Queen perché ti facciano la colonna sonora ed è fatta, Highlander di Maria De Filippi è servito.. Maria, questa potrebbe essere un’idea, te la regalo: a ogni puntata se ne va uno dei protagonisti. Nella finale rimani solo tu, manco fossi Connor MacLeod. Hai già lo slogan, “Ne resterà solo uno”, ti manca di assoldare i Queen perché ti facciano la colonna sonora ed è fatta, Highlander di Maria De Filippi è servito.

L'articolo Amici 2017, un’idea per Maria De Filippi: via un protagonista a puntata e rimane solo lei, come Highlander. Così può salvare un talent morto proviene da Il Fatto Quotidiano.


Amici, la versione di Morgan: “Mediaset da 20 anni abbassa il livello culturale del Paese”

$
0
0

La querelle continua, e stavolta parla Morgan. Fisicamente. Nel senso che ci sentiamo al telefono, lui chiuso in una torre segreta dove lo tiene Mediaset, a Roma, e ci parla di Amici. O meglio, ci parla della sua uscita di scena da Amici, argomento presentato al grande pubblico in prima battuta dalla stessa Maria De Filippi e presto diventato trend topic, con tutti i protagonisti e co-protagonisti, dall’altra coach Elisa, al professo Boosta, passando per i ragazzi della squadra fino alla settimana scorsa capitanata da Morgan a dire la propria, sul programma, su Maria e anche sui suoi colleghi così poco propensi alla solidarietà inter pares. Parla Morgan, e l’ex leader dei Bluvertigo, ovviamente, dice la sua. Ci parla di come il suo intento, quello per il quale Maria De Filippi l’ha voluto dentro Amici, sia stato tradito. Lui, un musicista chiamato a divulgare, insegnare, messo alla gogna per questo suo volersi fare insegnante, reo di aver provato a sovvertire delle regole. Regole, per altro, aggiunge Morgan, non scritte, visto che un “regolamento di Amici” non è visionabile, ma che evidentemente sono ferree se è vero come è vero che aver provato ad andare contro corrente gli è letteralmente costato il posto, con conseguente “linciaggio”, per dirla con parole sue.

Morgan critica duramente Mediaset, rea di aver abbassato negli anni il livello culturale del nostro paese, e critica Maria De Filippi, a suo dire interessata solo a creare dei prodotti facilmente smerciabili, ma assai poco interessata ai ragazzi, vera e propria carne da macello nel talent. Non a caso, provocando, Morgan tira in ballo gli assistenti sociali, che invita a fare irruzione nel loft senza finestre dove i ragazzi vivono, in una sorta di film horror. Parole dure, quelle di Morgan, che sapeva a cosa andava incontro, dice, a che ostacoli si sarebbe trovato di fronte, a quante porte chiuse, ma che, conscio del ruolo educativo che la televisione può avere, o deve avere, valeva la pena provare a scardinare.

Cosa succederà in quel di chez De Filippi non è dato sapere, anche se Morgan, scherzando, ipotizza che a sostituirlo sia Emma Meta. In questi casi si dice “chi vivrà vedrà”, ma il consiglio è sempre quello di spegnere la televisione e fare proprio un vecchio slogan di Maurizio Costanzo: preferisco vivere. (Qui l’intervista integrale)

L'articolo Amici, la versione di Morgan: “Mediaset da 20 anni abbassa il livello culturale del Paese” proviene da Il Fatto Quotidiano.

Amici 2017, il sostituto di Morgan non sarà Stash: “Se Maria De Filippi me lo chiedesse in diretta tv rimarrei senza parole”

$
0
0

Nel momento in cui girano insistenti voci su Stash come ipotetico sostituto di Morgan come coach ad Amici abbiamo deciso di sentire direttamente la sua versione dei fatti. Nessuno uscirà vivo di qui. Questa è il titolo di un libro di Jim Morrison anche piuttosto noto, ma è, al momento, la sensazione che tutti coloro che si stanno occupando della querelle Amici di Maria De Filippi vs Morgan stanno vivendo. Nessuno uscirà vivo di qui. Perché non passa ora, forse addirittura minuto che qualcuno dei più o meno diretti interessati non dica qualcosa, non scriva qualcosa sui social, soprattutto, insomma non metta carne al fuoco. Ecco, talmente tanta carne al fuoco che, almeno per una volta, verrebbe da invocare una bella protesta rompicoglioni dei vegani. Invece niente, ci si ritrova qui a passare la notizia del post di Boosta o di quello di Elisa, forse perdendo di vista che si sta parlando di televisione e canzonette e non di politica internazionale.

Ma nella ridda di notizie e notiziole legate al destino di Amici, e sopratutto legate al toto-nome su chi sostituirà Morgan come coach (finalmente abbiamo imparato come si chiama il caposquadra di Amici, almeno questo è fatta), una notizia ci ha colpito più delle altre. Ricorderete che subito si era fatto il nome di Emma, tirata direttamente in ballo nella puntata che andrà in onda sabato, ma registrata settimana scorsa, da Maria De Filippi. Un altro nome circolato parecchio, in qualche modo avallato dallo stesso Morgan nella video intervista che ci ha rilasciato ieri è quello di Ermal Meta, già nel cast come giudice, anche se nel suo post, perché ovviamente anche Ermal Meta ha scritto un post a riguardo, ha fatto capire che non è cosa, per impegni di lavoro pregressi, tipo tour. Oggi Tvblog, sito molto vicino a Maria De Filippi e al mondo di Maria De Filippi ha però tirato fuori un nome che, sulla carta, sarebbe perfetto. Perfetto per Maria De Filippi e per Amici, intendiamoci, quello di Stash dei Kolors. Perfetto perché Stash, con la sua band, è l’ultimo artista uscito da un talent ad aver avuto successo, molto. Perfetto perché sarebbe quindi la dimostrazione che Maria De Filippi ha a cuore i concorrenti del programma, e che i concorrenti del programma hanno una chance. Il fatto che a tirarlo fuori sia stato proprio un sito così vicino a Maria, non diciamo una house organ, ma qualcosa di parecchio simile, ha indotto molti a prendere sul serio la faccenda, tanto più che Stash proprio oggi ha pubblicato un post in cui, in maniera per altro molto dritta, ha detto di aver avuto un’ottima esperienza nel talent di Mediaset, per altro riuscendo nell’impresa di tenersi fuori dalla cagnara di quest’anno.

Per questo abbiamo fatto la sola cosa che andrebbe fatta in questi casi, l’abbiamo chiamato e abbiamo chiesto se sarà lui il prossimo coach di Amici, annunciato nella puntata che andrà in onda sabato 22 aprile e la cui registrazione avverrà nel giorno di Pasqua.”Guarda, io ho saputo di questa voce che stava girando come tutti, leggendola in rete. Mi hanno avvisato degli amici e dei fan, che per altro erano gli stessi che si erano chiesti e mi avevano chiesto proprio di dire la mia riguardo alla mia esperienza come concorrente, motivo che mi ha spinto a scrivere il post di stamattina”.
Il fatto che a scriverlo sia proprio Tvblog, però, rende la voce un po’ più “importante”, perché in genere quel che passa di lì è quasi sempre un dato di fatto, non un rumors, specie se si parla dei programmi della Fascino.

“Conosco il sito in questione, ma non so nulla riguardo quel che dici di vicinanza con la Fascino. Il che, forse, dovrebbe mettermi la pulce nelle orecchie e farmi aspettare una carrambata. Nei fatti io di questa faccenda non so davvero nulla, quel che so è che venerdì della prossima settimana esce il nostro nuovo singolo, e a maggio il nostro nuovo album, quindi le prossime settimane saranno dedicate a ultimare questo lavoro, poi alla promozione, ai firmacopie”. Insomma, se durante la registrazione della puntata Maria te lo chiedesse diresti di no? “Onestamente resterei senza parole, perché ho una grande stima per Maria e per il suo staff, e sarei davvero lusingato da una proposta del genere. Non saprei cosa rispondere, anche se ho già programmato il lavoro per le prossime settimane e visto che abbiamo fatto un lavoro importante, con grandi professionisti, non vedo come potrei trascurarlo. Comunque credo proprio che il problema non si ponga, dubito che mi farebbero mai una proposta del genere direttamente davanti al pubblico, stiamo parlando di lavoro e di altri impegni di lavoro. Dubito proprio mi faranno una carrambata”.

Ecco, diciamo che ci sono casi di richieste di matrimonio fatte di fronte a un pubblico ignaro di tutto, ma in genere vengono fatte tra fidanzati, e non è questo il caso… “Ripeto, grande stima per Amici, programma a cui dobbiamo molto, anche se esistevamo ancor prima di arrivarci. Grande stima per Maria, con la quale ho un ottimo rapporto di fiducia. Ma al momento la mia testa è tutta sulla mia musica, sul mio nuovo singolo che proprio a Amici andremo a presentare”. Fine di questa puntata della telenovela più in voga in Italia. Ci aggiorniamo tra dieci minuti…

L'articolo Amici 2017, il sostituto di Morgan non sarà Stash: “Se Maria De Filippi me lo chiedesse in diretta tv rimarrei senza parole” proviene da Il Fatto Quotidiano.

Amici 2017, ecco perché è inutile guardare la puntata in onda sabato sera (ancora con Morgan)

$
0
0

Attenzione spoiler. Fino a qualche tempo fa, non mettere questa avvertenza laddove si intendeva raccontare quale che sarebbe successo in un episodio di una serie tv che ancora doveva andare in onda avrebbe comportato pene corporali indicibili. Sì, spoilerare, questo il verbo gergale del caso, equivaleva, che so, a trovarsi in ascensore con Mike Tyson e lasciarsi andare a puzzette mefitiche: difficilmente se ne sarebbe usciti viviPoi succede che, almeno nel campo dei talent, Maria De Filippi decide che degli spoiler le interessa poco o niente, così le puntate di Amici, quelli serali, cominciano a essere tutte registrate. Col pubblico in sala che, in epoca social, racconta in tempo reale quel che succede. Chi fa cosa, chi sfida chi, chi va al ballottaggio, chi viene eliminato. Succede, quindi, che prima che la puntata arrivi dentro le nostre televisioni, dentro le vostre televisioni, già si sappia per filo e per segno la trama. Spoiler a go-go. Fatto, questo, che sulle prime potrebbe sembrare un autogoal, ma che in realtà crea ulteriore attenzione, curiosità. E in più dimostra la potenza della macchina, che può addirittura permettersi di fare ascolti milionari e vincere puntualmente la sfida dello share nonostante non ci sia in ballo nessun tipo di suspance.

Solo che quest’anno qualcosa si inceppa.

Gli spoiler continuano, in una bizzarra situazione per cui succede che le puntate vengano registrate mentre le altre puntate vanno in onda. E va bene. Però in una di queste puntate, quella che andrà in onda domani, Morgan sbrocca, o viene fatto sbroccare, a seconda delle versioni. Esce dallo studio, non torna, viene momentaneamente sostituito da Emma. Già sapete tutto. La notizia esce durante la registrazione, ma tutti pensano a una delle tanta trovate televisive, di questo in fondo si tratta. Non fosse che all’inizio di questa settimana, cioè prima che il pubblico da casa possa vedere il tutto, esce la notizia che Morgan è fuori da Amici. Il casino che scoppia poi lo conoscete già, avete pure visto i filmati in questione, sentito tutte le versioni, visto video e letto post.

Quindi, facendo il punto, domani andrà in onda una puntata che sapete già a memoria e che avete in sostanza anche già visto.

Non basta. Lo spoiler si evolve. La puntata di domani è stata superata dalla realtà, perché domani vedrete, anzi potreste vedere se vi posizionerete davanti al piccolo schermo, Morgan fare le bizze, ma già sapete che settimana prossima non sarà nel programma, che verrà sostituito, forse prima della messa in onda della puntata saprete esattamente da chi.

La domanda è: che senso ha guardare la puntata?

Perché se, come molti hanno pensato, è tutta una mossa pubblicitaria per attirare attenzione, giunta dopo la sconfitta auditel contro Ballando con le stelle di Milly Carlucci, che a questo punto per poter vincere dovrebbe mettere in scena l’esecuzione capitale da parte della giuria di Giuliana De Sio o di Alba Parietti, se tutto questo è pilotato, dicevamo, che gusto può dare guardare qualcosa che si conosce già? È vero, dirà qualcuno, c’è gente che continua a guardare tutti i Natali Una poltrona per due, o che se in tv passa La principessa Sissi o Mary Poppins non se lo perderebbe neanche sotto minaccia di morte, ma qui siamo di fronte a uno spettacolo decisamente diverso, qualitativamente, e non c’è dubbio a riguardo, e che si tiene in piedi più che altro sulla gara, chiamiamola così. Come vedere un Gran Premio di Formula 1 di cui si sa già primo chi vince, superando a che curva l’avversario. O come guardasi una serie tv crime sapendo che il protagonista morirà a tal momento ucciso in un modo che avete già visionato sul tubo.

Tutti dicono, “domani Amici di Maria De Filippi farà il botto”. Ma il botto l’ha già fatto. Morgan esce dallo studio. Maria inscena un discorso tipo “volete Gesù o Barabba”. La gente vuole Barabba, che nello specifico è Emma. Morgan rientra, dice “bimbiminkia” al pubblico. Quinto giudice aggiunto Luca Argentero. Ospiti Fonsi, Il Volo e James Blunt. Viene eliminato Oliviero Bifulco, ballerino, in sfida con Sebastian, della sua stessa squadra. Sapete già tutto. E quando dico tutto intendo un enorme emerito nulla.

Domenica, mentre voi sarete a tavola coi parenti a mangiare agnello, o sarete su Facebook di chi mangia coi parenti agnello a postare foto e video agghiaccianti di come gli agnelli vengono uccisi, e loro, i ragazzi di Amici, i giudici e Maria De Filippi saranno lì a registrare una nuova puntata, svelando finalmente chi prenderà il posto di Morgan, morto ma non risorto. Potremo già cominciare a pensare a quel che succederà tra due settimane, tre settimane, allungando lo spoiler, pensando alla prossima stagione, a quel che succederà tra dieci anni. Laura Palmer, per la cronaca, l’ha uccisa il padre, o meglio, un demonio o roba simile che vive dentro di lui.

Uscite, drogatevi, la televisione fa male, statene alla larga.

L'articolo Amici 2017, ecco perché è inutile guardare la puntata in onda sabato sera (ancora con Morgan) proviene da Il Fatto Quotidiano.

Marco Carta torna con “Tieniti forte” (e su questo siamo tutti d’accordo). Anticipando dal singolo “Il meglio sta arrivando”: una bruttezza raccapricciante

$
0
0

Uno ce la mette tutta. Sopporta il fatto che la temperatura sia passata di colpo da ventisette gradi e cinque, e che l’ha scoperto dopo qualche minuto che è uscito di casa, la mattina presto, con indosso solo jeans e t-shirt. Sopporta che il Comune di Milano abbia aumentato del centotrenta per cento la retta per il doposcuola estivo. Sopporta di non avere mai saputo come è andata a finire Goldrake, perché quarant’anni fa qualcuno ha deciso che l’ultima puntata era sacrificabile. Sopporta tutto. Poi gli arriva un comunicato stampa della WEA che gli dice che Marco Carta sta tornando, e che sta tornando con un singolo che anticipa un nuovo album. Ecco, fossimo in epoca Maya ce ne sarebbe abbastanza per fare sacrifici umani atti a rabbonire qualche divinità incazzata, perché i segni dell’imminente fine del mondo sono più che chiari. Per cui uno prende i propri figli per mano, li porta in cima a un monumento piramidale dal nome impronunciabile, nome che potrebbe serenamente essere anche quello di un mostro di H.P. Lovecraft, li dispone su un altare rudimentale fatto di pietre mentre brandisce un machete, perché i sacrifici vanno fatti a regola d’arte, quando alla memoria gli sovviene il titolo del nuovo singolo di Marco Carta, e capisce che è inutile far sacrifici, la divinità è incazzata talmente tanto che non c’è modo di rabbonirla, meglio piuttosto assumere posizione a uovo e aspettare il naturale decorso degli eventi.

Perché come lancio del nuovo lavoro dal sintomatico titolo Tieniti forte, e su questo siamo tutti d’accordo, Marco Carta, vincitore di una vecchia edizione del talent di Maria De Filippi e di una vecchia edizione del Festival di Sanremo, edizione che l’anno successivo, sverginato da Carta, avrebbe visto vincere Valerio Scanu, il tizio che adesso imita Patty Pravo a Ballando con le stelle, ha deciso di tirare fuori il il singolo Il meglio sta arrivando. Ora, non conosciamo personalmente Marco Carta, perché va bene tutto, va bene ascoltare musica di merda perché questo passa il convento, va bene ricevere comunicati stampa che annunciano l’uscita di musica di merda, perché in fondo, come diceva una vecchia pubblicità piuttosto inquietante “se la conosci la eviti”, va bene mettere in conto che per aver scritto questo articolo si riceveranno eoni di insulti da parte delle cartine, le fan di Carta, appunto, in nomen omen, per dirla senza starsi a scervellare troppo per fare facili ironie, ma che Marco Carta si prenda il lusso di farci sapere che quel che ha fatto fin qui non era il meglio, Santo Iddio, non è che fosse proprio necessario, le orecchie le abbiamo anche noi.

Quel che però il comunicato ci fa sapere è che per l’occasione Marco Carta, il cui singolo, ricordiamolo nel caso foste tra quanti amano autoinfliggersi dolore, o, nello specifico, farsi infliggere dolore dagli altri, chi scrive questo articolo nei panni della mistress vestita di latex, voi lì, in ginocchio su cocci di vetro, i capezzoli divorati da morsetti per le batterie della macchina, una coda da procione che spunta lì dove noi umani non abbiamo una coda, Marco Carta il cui singolo si intitola Il meglio sta arrivando, ha cambiato squadra di lavoro, questo ci dice il comunicato stampa della sua casa discografica, e ci dice pure che a scrivere il nuovo singolo non è stato Elio o un qualche fine umorista, ma Raige, Davide Simonetta e Luca Chiaravalli (perché Luca? Che ti abbiamo fatto di male?). Ecco, uno decide di cambiare corso, lo fa prendendo un titolo del genere, e si fa scrivere il singolo da Raige, vi rendete conto, da Raige.

Ma non basta, la canzone che ci presenta è una roba che spingerebbe chiunque a prendere i propri figli, portarli in cima a un monumento piramidale dal nome impronunciabile, nome che potrebbe serenamente essere anche quello di un mostro di H.P. Lovecraft, disporli su un altare rudimentale fatto di pietre mentre brandisce un machete, perché i sacrifici vanno fatti a regola d’arte, non tanto per chiedere che la imminente fine del mondo sia allontanata, quanto perché arrivi il più presto possibile. Una roba di una bruttezza raccapricciante, del resto in perfetta linea con la discografia di Marco Carta. Una canzone, per altro, che conoscendo le capacità canore del nostro (del loro, Dio Santo, del loro), fa capire quanto abbiano dovuto faticare in studio a aggiustare la voce, perché è sostanzialmente impossibile che Marco Carta riesca a cantarla dal vivo, manco se arrivasse a possederlo lo spirito di Freddie Mercury.

Marco Carta, comunque, non ha pietà di noi. E nel comunicato stampa che presenta Il meglio sta arrivando, abusa delle nostre povere menti come i protagonisti nazisti delle 120 giornate di Sodoma. Arriva infatti a dire questo “Tieniti forte è un mantra, un riassunto, un filo conduttore; lega perfettamente i brani del mio nuovo disco dove tutte le tracce sono accomunate dall’esigenza di imparare a resistere”. Dopo aver riletto per la centesima volta queste parole, l’autore di questo pezzo, in ginocchio sui pezzi di vetro di degregoriana memoria, il machete in una mano e la coda di procione che spunta lì dove noi umani una coda non abbiamo si chiede: ma che cazzo vorrà mai dire, Marco Carta? Non hai pietà, tu, di noi?

L'articolo Marco Carta torna con “Tieniti forte” (e su questo siamo tutti d’accordo). Anticipando dal singolo “Il meglio sta arrivando”: una bruttezza raccapricciante proviene da Il Fatto Quotidiano.

Levante, lascia la musica e resta su Instagram. Che quella è la tua strada

$
0
0

Levante, tesoro, ti abbiamo perdonato Assenzio, e Dio solo sa se ci è costato sacrificio farlo. Perché, diciamocelo apertamente, è una delle canzoni più brutte e sconclusionate che essere umano abbia avuto la sventura di ascoltare, figuriamoci di cantare. Ti abbiamo perdonato Assenzio perché l’abbiamo interpretato, credo molto correttamente, come un tuo tentativo di scrollarti di dosso quella patina indie che ha accompagnato il tuo percorso discografico fin qui. Tu che di indie, a dirla tutta, non hai nulla. Ti abbiamo perdonato Assenzio perché, per una serie di ragioni che, a rivederle oggi, hanno meno logica del calcio mercato messo in atto da Preziosi negli ultimi dieci anni. Si è iniziato a parlare di te come a una delle poche speranze non passate dai talent o da Sanremo negli ultimi anni, quando lo sanno tutti, tra addetti ai lavori, che non sei passata da Sanremo solo perché non ti hanno presa e se non fosse stato per Radio Deejay che ti ha passato Alfonso probabilmente dentro un talent ci saresti pure finita. Ti abbiamo perdonato Assenzio perché, in fondo, la tua Non me ne frega niente non era poi così male, e poteva lasciar intendere, forse intendere no, diciamo intuire, che qualcosa di interessante sarebbe pure potuto arrivare con il tuo album, nei confronti del quale si era creata un’attesa spasmodica, perché come si dice “in tempo di guerra ogni buca è trincea”.

Ti abbiamo perdonato Assenzio, ma Cristo santo, abbiamo sbagliato, perché Nel caos di stanze stupefacenti segni non ne lascia, se non quelli che ci autoprocuriamo mentre cerchiamo un modo per distrarci dalla noia, tagliandoci con lamette le braccia, torturandoci i capezzoli, perché, e qui sta il nocciolo della questione, tu, Levante, non solo non sei una cantautrice indie, come erroneamente ti hanno venduta per anni, ma probabilmente non sei neanche una cantautrice, in quanto stai fiorendo, giorno dopo giorno, come una perfetta instagramer. Anzi, la perfetta instagramer.

È sul social network dedicato alle fotografie, infatti, che Levante, concedetemi di non parlare più a lei ma a voi, lettori, si sta sempre di più imponendo, diventando non solo influencer, ma una vera e propria icona di un mondo fashion che le si addice molto di più di quanto non succeda, a livello di credibilità, con quello della cantautrice. Del resto, diciamolo, l’unica certezza di Nel caos di stanze stupefacenti è la copertina, che ce la mostra riversa a terra, a guardarsi in uno specchio, sensuale versione 2.0 della Alice lewiscarrolliana. Le canzoni, ascolto dopo ascolto, vanno svanendo, supportate da suoni leggeri, electropop e al tempo stesso tendenti al cantautorato, né carne né pesce, nei fatti, scelta che sulle prime è sembrata coraggiosa, ma che, all’ennesimo ascolto, sembra solo sbagliata, come di chi non sapendo come vestirsi per una serata, invece di optare per l’eleganza o per il casual, si veste semplicemente a cazzo di cane.

Fatta eccezione proprio per Non me ne frega niente, supportata da un buon ritornello che, con quei suonini lì, esce bene, per il resto, come accadeva ai ricordi felici in Inside/Out, le canzoni che compongono la tracklist spariscono a ogni passaggio, invisibili e intangibili. Rimane, invece, la Levante che si fa scatti con colori forti, le sue tazzine di caffè, la sua pancia tonica, forse troppo magra, i suoi dettagli delle stanze d’albergo, la sua faccia telegenica, le sue scarpe. Quelle, giorno dopo giorno, diventano più presenti, più calcate, più marcate. Del resto, facendo due conti in tasca alla stessa Levante, è evidente che è quello il suo core business, perché una settimana in top ten, oggi, non consentirebbe neanche di pagare una di quelle stanze d’albergo immortalate, siamo onesti. Allora, senza voler dare consigli radicali, Levante punti sempre più decisamente su questi aspetti, un po’ come sta facendo Fedez con la Ferragni. Chiaramente, lo sappiamo, ci toccherà sentire ancora per un po’ la Levante cantautrice indie prestata al pop, invenzione strampalata non si sa bene di chi. Portiamo pazienza e continuiamo a metterle tanti cuoricini su Instagram, almeno le aziende della moda, gli alberghi, i fabbricanti di scarpe continueranno a sponsorizzarla facendo di lei una instagramer di prima grandezza, troppo distratta dai social per continuare a cantare.

L'articolo Levante, lascia la musica e resta su Instagram. Che quella è la tua strada proviene da Il Fatto Quotidiano.

Viewing all 299 articles
Browse latest View live


<script src="https://jsc.adskeeper.com/r/s/rssing.com.1596347.js" async> </script>