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Channel: Michele Monina – Il Fatto Quotidiano
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Ricordate Enrico Papi? Ecco, dopo averci ammorbato in tv per decenni, ora canta. E il suo singolo, Mooseca, è un viaggio nell’abisso

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Bruciare tutto. Partiamo da qui. No, non nel senso di dare fuoco a tutto quanto, anche se visto l’argomento che finiremo per trattare la tentazione sarebbe proprio quella di bruciare tutto, ma nel senso del romanzo Bruciare tutto di Walter Siti. Se n’è parlato molto, nei giorni scorsi, a proposito di una presunta querelle tra lo scrittore e la filosofa Michela Marzano, avvenuta prima sulle pagine dei quotidiani nazionali, poi a Tempi di libri, dal vivo. Il punto era semplice, Siti ha pubblicato un libro in cui si raccontano le turpi gesta di un prete pedofilo, finendo per, in qualche modo, tenere le parti del protagonista del suo libro. La Marzano, che non è un critico letterario ma si è lo stesso sentita di dire la sua, ha accusato Siti di aver toccato con troppa bonarietà temi così scottanti, rischiando di giustificare l’ingiustificabile. Il tema è ovviamente delicato: può la letteratura mostrare il male facendo sembrare affascinante? La risposta, ovviamente, non è quella data dalla Marzano, ma è sì. La letteratura può tutto, anche far parlare un prete pedofilo e spingere il lettore a simpatizzare per lui. Non è la letteratura a dover esprimere un giudizio, ma chi legge. O chi ascolta. E qui arriviamo a noi. Bruciare tutto. Ma bruciare tutto davvero, perché se è vero, ed è vero, che la letteratura può tutto, anche farci flirtare col male, la musica non deve, non può, specie la musica di merda. Non può, quindi, abusare di noi, né può la critica permettere alla musica di far passare per legittimo tutto quanto, a volte deve prendere una posizione radicale, netta.

Succede che Enrico Papi, non soddisfatto di averci ammorbato per decenni dentro la televisione, tornato momentaneamente in auge per le sue partecipazioni a programmi come Tale e Quale Show e Ballando con le stelle, e per aver partecipato, lui che tanti danni ha fatto con Sarabanda, al video di Rovazzi Tutto molto interessante, decida di mettersi a fare musica in proprio. Bruciare tutto, già è chiaro. Non basta, succede che Enrico Papi decida di farlo cantando, si fa per dire, una canzone proprio alla Rovazzi, dance ma dance davvero brutta, in cui, per di più, con l’intento di apparire simpatico e ironico, finisce quasi per essere serio, e prendersi sul serio. Succede che, ascoltandola, l’ascoltatore comune, ma anche il critico musicale, come in una pagina di Cuore di Tenebra di Conrad, abbia un confronto diretto con l’abisso, col male.

Succede che il male, incarnato in questa canzoncina davvero orribile, si propaghi, attraverso la rete, attraverso le radio. Succede che il male, rivenduto come qualcosa di simpatico, volendo anche di divertente, diventi qualcosa di familiare, da prendere alla leggera, naturale. Così non può essere. Moseca, questo il titolo della canzone, è il male. Enrico Papi, a discapito del nome, è il male. Non contento di averci devastato con la televisione ora ci devasta con la musica. Bruciare tutto, questa la soluzione. E in assenza del fuoco va bene anche rispondere colpo su colpo, tu mi fai sentire Moseca? Bene, io verrò a leggerti passi di Walter Siti al citofono, tanto so dove abiti. Chiodo schiaccia chiodo, non c’è altra soluzione.

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Concerto primo maggio 2017, musica di una tale bruttezza da restare abbacinati. E un livello tecnico che nemmeno alla sagra del Bombarello

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Stiamo vivendo un momento particolarmente nero, per quel che riguarda il mondo del lavoro. Disoccupazione giovanile oltre il 40%. Inoccupazione meglio non parlarne. Precariato che soppianta il posto fisso come niente fosse, con praticamente nessuna speranza, per le nuove generazioni, di fare progetti futuri, da una casa a un figlio. Davvero un periodo di merda. Quindi, il primo maggio, Festa dei Lavoratori, avrebbe ottimi spunti su cui riflettere. Da tempo immemore, il primo maggio, è anche il giorno del Concertone dei sindacati, a Piazza San Giovanni, a Roma. E da tempo immemore è anche il giorno di uno degli eventi musicali con la più alta potenzialità di rompimento di coglioni. Elio e le Storie Tese ci hanno fatto su un  pezzo molto divertente, nel suo cinismo, sottolineando come ci siano realtà musicali che vivono praticamente solo su quel palco, realtà che si muovono goffamente tra musiche balcaniche, rock stonato e sghembo, Belle ciao e violini tzigani. Negli ultimi anni l’organizzazione è cambiata, ma va detto che il risultato finale è sempre piuttosto agghiacciante, come se, per una strana questione di mimesi, le canzoni proposte sul palco dovessero rappresentare in tutto e per tutto il periodo oscuro che stiamo vivendo, nel lavoro e nella società. Nessuna speranza, stando a quel che si è susseguito sul palco almeno per buona parte del pomeriggio, solo disperazione, precariato e voglia di darsi alla droga e all’alcol. Perché, diciamocelo, come fai a non stringere il laccio emostatico sul braccio e spararti in vena eroina se ascolti Rocco Hunt, vestito come fosse nato nel Bronx, che fa la cover di Tu vuò fa’ l’americano di Carosone? Come fai a non spararti l’eroina direttamente in una aorta, se senti Teresa De Sio devastare la musica di Pino Daniele? Cazzo, qualcuno le regali un autotune o la inviti a andare a Ballando con le stelle, che tanto hanno già il cognome nei camerini. Già la partenza con gli Apres la classe ci aveva tolto ogni voglia di vivere.

Una musica trita e ritrita, senza classe e senso. Le band e i cantanti usciti dal contest che portava dritti dritti all’anteprima del Concertone, poi, erano stati una specie di condanna a morte per quel residuo di lucidità che ancora eravamo riusciti a tenere con noi. Musica di una tale bruttezza da lasciare abbacinati. Se questo è il futuro, cazzo, forse non è che guardare al domani come a una necessità è così intelligente come ci siamo sempre detti. A salvarsi il solo Geometra Mangoni, con una notevolissima Eleviole ai cori, e Braschi, che almeno sanno come si scrive una canzone, ma non è che sia abbastanza. Tra i cosiddetti Big, che annoverano anche nomi come Mario Cavallaro, corrispettivo tarantesco di “stocazzo”, o il jazzista Guidi, che ci presenta una esecuzione talmente basilare di uno standard da far pensare a una gag, si salvano in pochi, pochissimi, da Marina Rei, accompagnata dalla band dei Paolo Benvegnù (lui, Paolo Benvegnù è assente perché ha avuto recentemente un malore), Artù, cantautore romanesco assolutamente da tenere d’occhio, e pochi altri. Per il resto, musica per punkabbestia con birretta in mano e cani sporchi appresso, e uno conta che almeno la birra riesca a intontirci abbastanza per farci sopportare tanta sciatteria musicale, tanto pressapochismo, ‘sta musica inascoltabile.

Senti gli Ex-Otago cantare “i giovani d’oggi non valgono un cazzo” e ti viene da dar loro ragione, a partire dalla musica di merda che hanno portato a Roma. Anche qui, azzeccare ogni tanto una nota, sappiatelo, non è un peccato mortale. Provateci. Del resto, il ritornello degli Ex-Otago va benissimo per Motta, uno dei casi di sopravvalutazione più clamorosa degli ultimi anni (anche lui stona come una campana, va detto). Qualcuno faccia una moratoria per impedire l’uso del violino nel rock, sembrate tutti gli Afterhours senza esserlo. Tristi cantautori indie e depressi, tipo Le luci della centrale elettrica di Vasco Brondi, che almeno ha fatto dell’essere stonato la propria cifra, e porta a casa il suo senza deludere nessuno, stonato è su disco, stonato è dal vivo, gli altri fanno semplicemente di tutto per imitarlo, riuscendoci. Sia detto per inciso, poi, se non sai cantare e non sai suonare, magari, potresti anche cercare un’altra forma d’arte per esprimerti, che la musica potrebbe non essere cosa per te.

Per il resto, Levante sembra una che a Tale e Quale Show imita Meg ai tempi dei 99 Posse. Maldestro è uno che in futuro potrebbe dire qualcosa di interessante, ma che per ora non ha ancora detto abbastanza per stare lì, non fosse che ha il suo discografico tra gli organizzatori. Discografico che è il manager di Fabrizio Moro, quantomeno con una carriera più significativa per giustificare la sua presenza nella parte alta del cartellone. Sfera Ebbasta non c’è, per questioni di salute, almeno questa Iddio ce l’ha risparmiata. Samuel no, lui c’è stato, evidentemente Dio aveva altro cui pensare.

Discorso a parte per Editors, che fanno apparire nani i nani che in effetti li hanno preceduti, giganteggiando, e però c’entrano in quel contesto come il parmigiano sulla pasta con i frutti di mare. Roba da farti rivalutare i talent, se questa è l’alternativa. No, dai, stavo scherzando, molti di questi ne sono semplicemente la versione “vorrei ma non posso”, la vera musica scorre altrove. Qui di sicuro no. Infatti uno finisce per abbruttirsi, drogarsi, ubriacarsi, al punto che quando sul palco compaiono i Ladri di carrozzelle gli sembra di sentirli gridare “stravedo per la figa”, invece del più canonico “stravedo per la vita”. La roba e l’alcool, viene da pensare, lo hanno fatto girare i fonici di palco, perché un livello tecnico così basso manco alla sagra del Bombarello di Sirolo.

Diciamo le cose come stanno, non è che sotto il cappello del lavoro si possa far passare per buona la qualsiasi. Anzi, proprio il fatto che ci siano problemi legati al lavoro, forse, dovrebbe indurre gli organizzatori, Carlo Gavaudan di Ruvido Produzioni, e Massimo Bonelli di iCompany, a puntare su altra musica, distante da questo stereotipo ormai abusato. Magari solo sul sano pop, se questa è la cosiddetta musica d’autore: i La Rua, che potevano apparire fuoriposto, sono tra i pochi a essersi salvati (oltre a essere tra i pochi intonati), mentre Francesco Gabbani e Ermal Meta hanno fatto meglio di buona parte degli artisti blasonati presenti nel cast, sia tecnicamente che a livello di feedback da parte del pubblico in piazza. A parte loro si salvano Lo Stato Sociale, surreali ma a fuoco, musicalmente inesistenti, ma sicuramente dotati di personalità e con testi che nel loro essere “a post-it” arrivano, e Brunori Sas, sempre più in uno stato di grazia e azzeccato in un concerto che ambisce a guardare al sociale. Anzi, Brunori Sas forse proprio oggi ha fatto definitivamente il suo ingresso tra i grandi della canzone italiana, e non era affatto scontato. Ad accoglierlo Bennato, anche lui in splendida forma. Non se ne accorge solo la Rai che va in pubblicità in mezzo alla sua performance, scandaloso.

Per quel che le storie che si alternano tra una canzone e l’altra, che dire?, roba da far passare il libro Cuore per un saggio di anti-retorica. Esiste un modo di raccontare le storie, ragazzi, sappiatelo. Pagate un autore, iscrivetevi a un corso di storytelling, ma cambiate registro. Così non va. Quando alle 19 è arrivato il telegiornale abbiamo accolto Mattarella che ha parlato con la sua solita verve di lavoro e disoccupazione come fossero i partigiani per le strade di Milano, nel 1945, una boccata d’ossigeno, un refolo di speranza. Così poi si finisce per non seguire più con interesse quel che si svolge sul palco, e ci si perde magari anche qualcosa di buono, sempre che c’è stato. Non è colpa nostra, abbiate pietà, mica è colpa nostra se siamo rimasti schiacciati sotto tutto questo orrore. È il primo maggio e devi lavorare. Piove. Ascolti le canzoni strappalacrime, ascolti le storie strappalacrime e poi corri a mettere sul piatto i Joy Division, sperando di trovare nella voce lancinante e lancinata di Ian Curtis un po’ di gioia di vivere. Sempre che non sia troppo tardi. Così non va, se in Italia manca il lavoro non è certo colpa nostra, non potete farcela pagare così…

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X Factor come Chi l’ha visto?, lo sforna-talenti scomparsi cambia strategia. Lasciate libero Cattelan e prendete la Sciarelli

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Ci risiamo. Non è ancora finita la sedicesima (dico, sedicesima) edizione di Amici che già sono partiti i casting di X Factor, manco si trattasse di frutta di stagione, o degli acconti IVA. Fuori uno va l’altro. E allora, siccome di Amici abbiamo detto anche troppo, forse è il caso, fugacemente, di dedicarci a X Factor, anche per dare qualche indicazione utile alle decine di migliaia di wannabe cantanti (e alle poche decine di cantanti veri) che nelle prossime settimane si metteranno in fila, numerino in mano, per accedere alle varie fasi delle selezioni.

Innanzitutto, un piccolo ripasso delle puntate precedenti. X Factor e Amici non sono la stessa cosa. O meglio, sono la stessa cosa su cui è stata passata una mano di vernice diversa. Amici è il talent (parliamo del serale, perché poi ce lo spacciano per scuola, non dimentichiamolo) in cui i cantanti vestono con le felpe delle proprie squadre, parlano molto, troppo, hanno accesso a duetti con star o presunte tali, hanno la De Filippi e i coach che li chiamano “artisti” o “talenti”, alla fine vince uno, che ha un album pronto, registrato nei camerini in due giorni, con le canzoni di quattro autori, sempre quelli, gli altri finiscono subito nel dimenticatoio, aprendo le strade per il vincitore, che arriverà a breve. X Factor ne è la versione extra-cool. Tutto è figo. Ci sono i cantanti che vestono più o meno bene. Ci sono i giudici che li chiamano “artisti” e “talenti”. Ci sono le coreografie di Tomassini (è vero, di là c’è Peparini, ma tutti sottolineano sempre come siano decisamente superiori rispetto al resto del programma), ci sono poche collaborazioni con artisti di nome, c’è un inedito, non di più, e spesso i più bravi, toh, bravini, manco arrivano a proporlo. Poi finisce e ciao ciao, si torna a fare il benzinaio (cit.).

Da una parte c’è la De Filippi che legge lettere di genitori lontani che scrivono ai figli in cui non hanno mai creduto. Dall’altra c’è Cattelan coi suoi mocassini senza calzini. Da una parte c’è il pubblico tipo Colosseo, che si eccita per i pettorali dei ballerini e per la voce sguaiata di Emma, dall’altra c’è lo stile Sky, asciutto e elegante. Da una parte c’è Rtl 102,5, la radio per la very normal people, dall’altra la radio cool per antonomasia, Radio Deejay. Ah, no, scusate, Rtl 102,5 non copre più Amici, sostituita in maniera coatta da 105, l’ammiraglia delle radio Mediaset, ma è entrata come media partner a X Factor. Poco cambia, forse. Perché a vederli un po’ più da vicino, i programmi, sono davvero molto simili. Chiaro, uno è dipinto di fucsia piuttosto trash, l’altro lilla molto alla moda. Sotto sotto stiamo parlando della stessa cosa.

La prova? Guardiamo all’ultima edizione. Chi l’ha vinta? Se non siete corsi su Google probabilmente non saprete rispondere, a meno che non abitiate a Milano, la sola città dove in effetti X Factor ha un senso di esistere (nel resto d’Italia, diciamocelo, la gente ha Sky per guardarsi le partite, non certo per guardare i programmi di Sky 1). Hanno vinto i Soul System. Bene, a questo punto dovete per forza essere andati su Google, perché della band quasi all blacks di Verona si è persa traccia da un minuto dopo la proclamazione della vittoria. Non erano loro, del resto, quelli cool della scorsa stagione. E chi era cool? Semplice, lo era Roshelle, la prediletta di Fedez. Molto cool, bel culo, capelli rosa, peccato fosse stonata come una campana, quarta classificata. Un po’ lo era Eva, la Lou Reed tanto inseguita da Manuel Agnelli, attitudine indie, tatuaggi e capelli rossi, molta forma e poca sostanza, terza classificata. Lo era un pochino di più Gaia, bella voce, incidentalmente, bell’aspetto, con potenzialità internazionali non si ostinasse a cantare come una settantenne, seconda classificata.

Bene Roshelle, la wannabe Rihanna, si è fatta qualche serata in discoteca, dalle due di notte in poi, free drink, poi basta, morta lì. Eva ha aperto il tour di Carmen Consoli, non esattamente un bagno di folla. Gaia ha aperto i tour di Giorgia, cantando mentre gli operai ancora montavano il palco. Insomma, un po’ poca roba, direi. Considerando che l’anno prima aveva vinto GioSada, che a parte essere stato spedito da Puglia Sound in America e aver doppiato un cartoon al cinema non ha esattamente sfondato il muro del suono, e che Fragola, dopo essere andato due volte di fila a Sanremo, è scomparso all’orizzonte, forse è il caso di chiedersi cosa resterà di loro. Forse.

Questo per dire che, o amici cantanti o aspiranti tali, probabilmente non è X Factor lo scivolo che vi consentirà di mettervi in evidenza come pensate al momento di iscrivervi. Non lo è stato ormai da tempo, senza bisogno di tirare in ballo le parabole discendenti delle varie Chiara Galiazzo e compagnia bella. Fateci caso, se non si cita Marco Mengoni, che piaccia o meno, è il solo a avere una carriera chiara fuori da quel teatrino, per il resto è stato un via vai di carrierine bruciate. La stessa Giusy Ferreri, tornata in auge con Roma Bangkok un paio di estati fa, al momento vive solo in radio, scomparsa subito dalle classifiche di vendita e senza un biglietto venduto in prevendita prima dell’annuncio della sua gravidanza e del conseguente annullamento del tour. Tabula rasa, tanto per citare una delle poche artiste uscite da questo contesto, costretta poi a cercarsi una strada altrove.

Chi invece, questo è il destino dei talent, vive meglio sono i giudici. Ma anche lì, mica tutti. Se Fedez, infatti, sta mietendo successi col suo socio Ax, e Agnelli è a fatica tornato a vestire i panni del rocker, per altro portandosi dietro uno dei suoi ragazzi, Biagioni, Arisa ha decisamente dovuto abbandonare l’idea di fare televisione, e Alvaro Soler è tornato a fare Alvaro Soler, cioè quello che canta “mira Sofia”. E i nuovi giudici? Questa la vera domanda da farsi rispetto a X Factor 11. Chi saranno in nuovi giudici? Dato per assodato il solo Fedez, che evidentemente ha nella tv una perfetta sponda per il suo essere webstar, oltre che popstar, e dato per assodato che Agnelli non ripeterà l’esperienza, perché va bene giocare fuoricasa, ma alla lunga la credibilità si finisce per perderla, e che gli altri due si son persi per strada, iniziano a girare nuovi nomi. Anche in virtù proprio del nuovo ingresso nella squadra del talent, che non può non essere analizzato, quello di Rtl 102,5 come media partner. I nomi che infatti stanno circolando insistentemente sono tre, per la precisione, Tommaso Paradiso dei Thegiornalisti, Levante e Stash, cantante dei Kolors. Tutti nomi giovani, cool, di un certo successo, anche se piuttosto effimero. Tutti artisti con l’immagine giusta, la faccia giusta, i social giusti, tutti artisti, per altro, in heavy rotation proprio a Rtl 102,5, fatto che potrebbe risultare casuale, ma che dando una lettura un filo meno superficiale, potrebbe avere anche un senso.

Perché l’ingresso di un media partner del genere, per anni e anni legato al concorrente Amici, e ora sostituito dal gruppo delle radio Mediaset, ha una chiave di lettura molto precisa, Sky punta decisamente a guardare verso il centro-sud, dove Amici è fortissimo e dove, invece, Sky e X Factor è debole. Potrebbe quindi essere normale che in questa chiave si punti su artisti che in quel contesto sono già conosciuti. Come ieri Linus ci ha tenuto a dire, Radio Deejay non è più della partita (neanche il Gruppo L’Espresso, quindi, con buona pace di Ernesto Assante che potrà finalmente smetterla di fare le dirette twitter dei serali), e dal suo punto di vista sembra non essere una grande perdita. Linus parla di ipermercato della musica, guardando a Rtl 102,5, tradendo con questo quello sguardo un po’ snob con cui ha sostenuto negli anni il talent di Sky. Il punto è proprio questo. Quanto Rtl riuscirà a dare spinta al format? Proprio in queste ore, per dire, Gaia è entrata in airplay nel network di Cologno, con la sua nuova canzone Fotograms. Possiamo immaginarci che la passeranno spesso, e che ne parleranno spesso nei vari programmi, trasformando un nome in un personaggio e una canzone in una hit. Lo si legga senza entrare nel merito del brano, perché stando a questo, Fotograms sarebbe stata perfetta anche per Radio Deejay, che invece si è sfilata dalla partita parlando male dell’ex fidanzata. Insomma, vuoi vedere che questo è il terreno i gioco su cui si sposterà il talent, su quello delle radio?

Vuoi vedere che quella che poteva essere una semplice joint venture potrebbe diventare il corrispettivo del pompaggio di una vecchia carretta? Ovviamente, guardandola dal punto di vista di Rtl una media partnership potrà dirsi riuscita solo se stavolta da quel contesto uscirà almeno un cantante di successo, cioè in grado di diventare un personaggio a prescindere dal sostegno dato a suon di passaggi. Questa, ovviamente, è fantapolitica, ma intanto è stato scritto, poi si tireranno le somme. Nella convinzione che la vera musica sia altrove, come continueremo a dire in tutti i luoghi e in tutti i laghi lo abbiamo scritto. Nel caso, invece, fossero solo autosuggestioni, e nulla cambierà all’orizzonte, ci sentiamo di dare un suggerimento a Sky e a Simon Cowell per quel che riguarda la conduzione della nuova stagione, lasciate libero Cattelan, che tanto è chiaro ha già in mente di diventare il nostro Jimmy Fallon. Al suo posto prendete la Sciarelli, meglio giocare d’anticipo.

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Fedez-Ferragni e la proposta di matrimonio sul palco. Ecco perché “Je suis J-Ax”

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La vita sa essere spietata. Inizi a rappare in tempi in cui il rap, praticamente, non esiste. Lo fai inseguendo un sogno, credendo nel tuo talento. Mentre anche altri iniziano lo stesso percorso, ma lo fanno partendo da un’altra prospettiva. Tu lì a rappare con leggerezza, gli altri a fare politica. Inizi a rappare e ti trovi praticamente tutta la comunità rap contro, il dito puntato con l’accusa di aver svenduto un genere, di essere commerciale. Hai anche successo, sia detto, ma sempre con un po’ d’amaro in bocca, perché la critica non ti caga, perché la comunità non ti caga. Poi arrivano i tempi bui, perché, credeteci, quelli erano tempi migliori. Arriva la rottura col proprio socio storico. Arriva una carriera solista che non ingrana. Tutto sembra finito.

Poi il colpo di reni, lo scatto d’orgoglio, la botta di culo. Arriva The Voice, torna il sereno. I nuovi rapper, in realtà poppettari che usano la cifra rap, iniziano a citarti come punto di riferimento, come modello, come precursore. Sono tutti lì, i poprapper, in fila davanti al tuo trono. Ti metti in proprio, stringendo società con uno di questi. Diventi per tutti lo Zio, quello più vecchio, certo, ma che ha ancora presa sul pubblico giovane, sempre più giovane. Con Fedez apri Newtopia. Con Fedez decidi di metterti a lavorare anche artisticamente. Fate Comunisti col Rolex, andate in testa alla classifica, sbancate. Sei un mito, di nuovo, o forse per la prima volta. Partite in tour, un tour quasi ovunque sold out, fatto in palasport importanti. Fate quattro date di fila al Forum, record nel vostro genere, ma anche bel risultato in generale, riuscito a pochi altri artisti. Insomma, tutto sembra filare liscio. I giorni in cui ti scherzavano perché mentre gli altri parlavano di sociale e politica e tu cantavi il Funkytarro o altre amenità del genere sembrano lontani. Vieni anche invitato a parlare di sociale e politica in tv, diventi una sorta di testimonial proprio di questo giornale.

Tutto bene è quel che finisce bene, direbbero in una favola. Non fosse, però, che il tuo socio, Fedez, uno che non sbaglia una mossa social neanche volendo, decide di rovinare tutto. Mentre siete in concerto all’Arena di Verona – ti rendi conto?, due rapper all’Arena di Verona – lui che fa? Tira fuori dalla tasca un anello con brillante e chiede la mano alla sua fidanzata, la fashion blogger Chiara Ferragni. Così. Dal nulla (si fa per dire, eh). Lui che con te ha inciso Vorrei ma non posto è lì a chiederle di sposarla in diretta radio, davanti a 12mila persone presenti fisicamente in loco. Lui che solo due mesi fa diceva di non credere nel matrimonio è lì, in ginocchio, a mandare a puttane tutto quello che hai fatto per riconquistare una credibilità. Tu da quel momento diventi come il pugile suonato, quello che al centesimo cazzotto in faccia non capisce più nulla, si aggira per il ring senza più una logica, senza un domani. Non si può spiegare altrimenti il tuo dire, a fine concerto, che per Fedez sei l’altra metà del cielo.

Bene, caro J Ax, io sono con te. Perché anche se la tua musica, allora come oggi, mi ha sempre fatto cagare profondamente, in questi casi penso che si debbano mettere i gusti e il buon gusto da parte e si debba fare uso della solidarietà. Quindi lo dico pubblicamente, anzi, lo scrivo, contando che queste parole restino nel tempo: oggi e sempre Je Suis J-Ax, l’altra metà del cielo.

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Rolling Stones a Lucca, 350€ per i biglietti? Sono troppo pochi

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Scusatemi ma non vi seguo proprio.

Esce la notizia che i Rolling Stones suoneranno per la prima volta in Toscana. Suoneranno il 23 settembre nella splendida cornice di Lucca, all’interno del Lucca Summer Festival. Uno dovrebbe dire, bene, figata, finalmente un po’ di musica come si deve in questo paese devastato dal cattivo gusto e dalla musica prescindibile. Escono i biglietti e viene fuori che il Pit 1, in un contesto per altro piccolo, costa 350 euro. Quelli più economici 100 euro. Un concerto dei Rolling Stones, direi li vale tutti. Non fosse altro per una mera faccenda anagrafica: Mick Jagger e Keith Richards cominciano ad avere una certa, non è che chissà quante altre volte capiteranno dalle nostre parti, sarebbe il caso di approfittarne al volo.

Infatti stavolta toccheranno solo Lucca nel loro tour mondiale. E non è dato sapere quando ce ne sarà un altro. Chiaro, 350 euro sono tanti. Come anche 100. Ma non è che i concerti di artisti decisamente minori costino molto di meno. Per dire, c’è gente che ne arriva a spendere quasi cinquanta per vedersi Emma, perché mai uno non dovrebbe sentirsi sollevato nello spendere 350 euro al concerto di chi, volenti o nolenti, ha fatto la storia del rock e, di conseguenza, della musica contemporanea del Novecento? Addirittura Manuel Agnelli, che nei giorni scorsi ha rilasciato una discussa intervista in cui ne ha avuto per tutti, seppur definendoli ignoranti e debosciati ne ha riconosciuto l’indiscusso valore artistico, e se l’ha fatto lui, figuriamoci noi, che abbiamo un’opinione del resto del mondo decisamente meno altezzosa.

I Rolling Stones hanno fatto la storia del rock, è un fatto. E vederli dal vivo è un’occasione che non ci si deve lasciare alle spalle. Perché a differenza di molti altri artisti non ci hanno ammorbato nel corso degli anni con lavori sgradevoli, continuando a portare avanti un repertorio pregevolissimo, arricchito con parsimonia di nuove chicche, come col recente album di cover blues Blue & Lonesome. Genio e sregolatezza, si dice, solitamente, pensando agli eccessi di Keith Richards e soci, ma qui si parla di immenso talento e di rigore, se no non sarebbero ancora lì, a incantare. E, tanto per citare Enrico Ruggeri, che proprio di questi tempi sta suonando in giro per l’Italia coi rinati Decibel, se diamo per assodato che il rock è per gli adulti di questo periodo quel che la musica classica era per gli adulti di una cinquantina di anni fa, ci sta benissimo che un concerto rock abbia prezzi esclusivi, che sia quindi accessibile a chi è disposto magari anche a fare un sacrificio, pur di vedersi i propri beniamini. C’è gente, diciamo cose scontate, che spende la stessa cifra per andarsi a fare un fine settimana esclusivo in una Spa, o che ci si compra in rete uno smartphone usato, perché c’è gente che si sente in dovere di fare la morale a chi decide di spendere quei soldi per sentire quella musica? Ma soprattutto, chi ha passato la giornata a rompere le palle perché c’è la fame nel mondo e amenità varie, è cosciente che questo è un modo per aggirare il problema del secondary ticketing e che i prezzi di mercato, fino a prova contraria, li fa l’offerta, non l’offerente? Ripeto, se per Emma, Mengoni o affini si spendono 50 euro, per i Rolling Stones 350 euro sono troppo pochi.

Pensate a imbottirvi di diserbante e a farvi brillare davanti a chi alza i prezzi dei farmaci salvavita, dei prodotti di prima necessità, dei libri di scuola, magari cambiando l’ordine delle pagine ogni anno per impedire il mercato dei libri usati, ma lasciate che gli appassionati del rock facciano le proprie scelte in santa pace. Mai soldi sono stati altrettanto ben spesi di quelli messi su un buon disco, sul biglietto di un bel concerto o, viva Dio, per compraci una chitarra elettrica.

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Mariano Di Vaio, da influencer/fashion blogger a cantante. L’estate sarà pure la stagione più bella ma è anche quella in cui escono singoli (brutti) così

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Uno dice, ma perché parli sempre di musica brutta? Non faresti prima a non ascoltarla proprio, e dedicare le tue poche energie rimaste a spingere quello che di meritevole c’è in giro? Tutto vero. Tutto sacrosanto. Esiste il bello, e andrebbe evidenziato. Ma il problema è che il brutto è molto di più. E soprattutto il brutto te lo tirano addosso manco fossero gavettoni a Ferragosto. Allora, come se fossimo stati chiamati da Dio attraverso un raggio di sole che perfora il rosone di una chiesa, mentre James Brown celebra una messa gospel, eccoci pronti a farci carico della missione definitiva: eliminare dalla faccia della terra la monnezza, così che i fiori, che per colpa di De André adesso c’è chi cerca nel letame, possano tornare a far bella mostra di sé.

E’ il caso di partire da un singolo che sta circolando in queste ore. Un singolo che ha per titolare Mariano Di Vaio, e per titolo Wait for me. Se non sapete chi sia Mariano Di Vaio significa che, forse, una speranza di sopravvivere all’apocalisse l’avete, e non sarò certo io a negarvi questa possibilità. Vi basti sapere che si autodefinisce fashion blogger, influencer e che ha bazzicato Selfie. Come dire, l’anticristo di questa nostra crociata. Di Vaio, per il suo compleanno, ha deciso di chiedere ai suoi followers di spingere in alto con i download e le visualizzazioni il suo singolo Wait for me, prova provata che l’estate sarà pure la stagione più bella, quella del sole, del mare, delle vacanze, ma è anche quella in cui i tossici lasciano le periferie per assieparsi nei bar del centro, in cui, mentre siete in vacanza, qualcuno vi scassina la porta di casa, vi si fa l’oro della nonna e poi vi caga sul letto, e in cui la vostra lei o il vostro lui trova qualcuno più in forma di voi, lasciandovi da soli a finire il Sudoku. L’estate è tutto questo e una serie di singoli di merda che neanche la mente più contorta e viziata potrebbe pensare.

Una mente viziata e contorta ha però pensato questa canzone qui, che il fashion blogger Mariano Di Vaio ha deciso di cantare, perché, evidentemente, a lui di dirci come vestirci e come non vestirci non basta, deve proprio venirci a rompere il cazzo porta a porta. Ora, se Fabrizio De Andrè avesse ragione, su questa canzone dovrebbe nascere un’orchidea meravigliosa e bellissima.

Prima di lasciarvi, però, direi che è il caso di provare a rendere questa lettura propositiva. Quindi, dopo avervi consigliato, se siete in grado di hackerare qualcosa, di attaccare in massa i social del fashion blogger, magari rubandogli qualche foto in cui si vedono smagliature e doppio mento, perché Di Vaio deve essere punito a casa sua per quel che ci ha fatto con questa canzone, vi consiglio qualche album che, invece, merita la vostra attenzione. Nello specifico, per disinfettarvi le orecchie da tanto brutto, non potete che passare dal bello contenuto nel densissimo doppio album Forze elastiche del cantautore Fabio Cinti, nei brani poeticamente corrosivi di Tornano sempre di Angela Baraldi, o in quelli semplicemente perfetti di H3+ di Paolo Benvegnù. Non credo sarà sufficiente a liberarvi il cervello dall’abisso intravisto con Wait for me di Di Vaio, ma per quello potete sempre contare sul vostro subconscio o, a mali estremi, su una lobotomia auto praticata infilandovi un ferro da lana sotto l’occhio destro.

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Chris Cornell, morto il cantante dei Soundgarden e degli Audioslave. I media: “Possibile suicidio”. Notizia lancinante per una intera generazione

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È morto Chris Cornell, storica voce del grunge, alla guida dei Soundgarden e degli Audioslave, con una solida carriera solista e la splendida esperienza nei Temple of the DogLa notizia è stata confermata dal suo agente ad Associated Press, parlando di “morte improvvisa e inattesa” (il corpo di Cornell è stato ritrovato senza vita a Detroit nella stanza dell’hotel MGM. Come riportano Variety e The Independent la polizia sta indagando per “sospetto suicidio”). 

Detta così, lo so, la notizia suona fredda, asettica. Ma se siete nati sul volgere degli anni sessanta, come chi scrive, non potete che raccontarla così, cercando di mettere le parole tra la notizia e un forte senso di sgomento, di spaesamento. Chris Cornell, una delle più intense voci del rock, è stato, insieme a Kurt Cobain e Eddie Vedder, rispettivamente nei Nirvana e nei Pearl Jam, uno dei massimi rappresentanti di una scena che per certi versi ha letteralmente chiuso il Novecento, almeno in musica. Nel libro La vita dopo Dio di Douglas Coupland c’è un bellissimo raccontino, un paio di pagine scarse, in cui l’autore canadese racconta di come ha appreso la notizia del suicidio di Cobain. Poche righe di una bellezza lancinante, perché quella notizia è stata, appunto, lancinante per una intera generazione, quella Generazione X che lo stesso Coupland ha contribuito a codificare e decifrare.

La notizia della morte di Cornell, oggi, è di pari portata. Perché se Cobain si portava via, definitivamente, la nostra innocenza, e, diciamocelo pure apertamente, l’ultimo brandello di speranza in una rivoluzione che, immaginavamo, ingenui, sarebbe partita da Seattle per conquistare il mondo a suon di riff di chitarra e voci potenti, Cornell si porta via definitivamente la nostra giovinezza. Sì, il rock ha questo potere, lo sappiamo bene, quello di trascinarci in un posto nel quale siamo ancora giovani, belli, idealisti. Pensiamo ancora, in quel posto lì, che la musica possa cambiare le cose, possa fermare le guerre, difendere i diritti civili, sovvertire dittature e, più semplicemente, cambiare la testa e il cuore della gente.

Così non è. Non lo è mai stato, forse. Non lo sarà più. Perché Cornell era, pensavamo, quello per sempre giovane e bello, con la voce che, anno dopo anno, non perdeva un grammo di potenza, lo sguardo tenebroso, la capacità, propria solo dei grandi artisti, di affrontare il palco da solo, la chitarra acustica a tracolla. Come lui, certo, anche Eddie Vedder, che però è sempre stato più inglobato nei suoi Pearl Jam, diventandone giocoforza parte anche quando poi sale sul palco da solo col suo ukulele.

Chris Cornell è, o meglio era, la voce oscura dei Soundgarden, quelli durissimi di Ultramega Ok, Louder than Love, Badmotorfnger e soprattutto Superunknown, ma era anche quella disperata dei Temple of the Dog, quella politicizzata degli Audioslave, al fianco di tre quarti dei Rage Against the Machine, così come il solista capace di sfornare unplugged come lavori discutibili come Scream, fatto in coppia con Timbaland. Un gigante del rock, una voce incredibilmente empatica, una pagina della nostra storia musicale recente che mai avremmo voluto vedere strappata così precocemente. Perché coi suoi cinquantadue anni, Cornell, ci faceva pensare di essere ancora giovani, come succede nel calcio quando vediamo in campo calciatori nati negli anni Settanta, più piccoli di noi, ma ancora ascrivibili alla nostra generazione.

Non si conoscono le ragioni di questa morte improvvisa. E onestamente preferiremmo non saperle. Perché Cornell non può realmente essere morto. Non può aver cancellato definitivamente il grunge, che dopo aver perso subito i Nirvana, e poi gli Alice in Chians, impresentabili dopo la morte di Layne Staley, ora vede sparire anche i Soundgarden, proprio negli ultimi anni tornati a suonare e incidere insieme. Loro arrivati da Seattle, nella periferia dell’impero, un posto che, prima di loro, era una città dove pioveva sempre e dove era comunque nato Jimi Hendrix, ma sicuramente non la capitale mondiale del rock. Loro più ostici dei Pearl Jam, più duri dei Nirvana, più radicali degli Alice in Chians. Il suono della nostra generazione.

Io li ho visti negli anni novanta a quella che era letteralmente un’isola di speranza come L’Isola nel Kantiere di Bologna. Un concerto granitico, di quelli che poi non riesci a dormire per giorni, tanta l’energia accumulata. L’indomani, sempre nei pressi di quel luogo, sorto sulle rovine di quello che poi sarebbe tornato a essere il Teatro del Sole, dei ragazzi mi fermarono chiedendomi l’autografo, confondendomi col chitarrista della band, Kim Thayl. Per non deluderli gliel’ho fatto, abbozzando un inglese improbabile. Il rock, in fondo, c’è sempre stato per farci sognare. Oggi un po’ meno.

 

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Tutto questo è Vasco. Quarant’anni al massimo

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“Ti porterei anche in America, abito fuori Modena, Modena Park…”. Tutto è cominciato così. Con questi notissimi versi di Colpa d’Alfredo. Queste le parole che il protagonista della canzone aveva detto alla tipa in discoteca, poi identificata come la troia, prima che se la portasse via il negro, mentre il tipo veniva distratto da Alfredo. […]

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Vasco, oggi quarant’anni fa il primo singolo Jenny è pazza/Silvia. E in libreria arriva “Da rocker a rockstar”

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Chiamiamole pure coincidenze. Lo sono, del resto.

Nei fatti, il 15 giugno del 1977 esce Jenny è pazza/Silvia, primo singolo a 45 giri di Vasco Rossi. A spingerlo a incidere queste sue due prime canzoni l’amico e compagno di avventure a Punto Radio, Gaetano Curreri, che presto avrebbe dato vita agli Stadio. Sua l’idea di inciderla, e anche gli arrangiamenti dei due brani. Jenny sarà la prima di una serie di ritratti di ragazze “strane”, come poi Albachiara, Sally e tante altre. Ne vengono tirate duemilacinquecento copie appena, e a pubblicarlo è l’etichetta Borgatti, di Paolino Borgatti, specializzato in liscio, valzer e mazurke. Il signor Borgatti, proprio per lanciare Vasco, in cui crede ciecamente, uomo di grande intuito quale era, crea un marchio apposito, la Jeans Record, per distinguerlo dai suoi altri dischi, diretti al pubblico delle balere.

Il passo successivo per Vasco sarà quello di buttarsi anche dal vivo, prima con un breve show, composto in pratica solo da questi due pezzi, alla Discoteca Snoopy di Modena, poi con un mini-live presso l’aula magna dell’istituto Corni di Modena, in quello che è il suo primo concerto ufficiale da solista. Siamo sempre nel 1977, quarant’anni fa. Nel corso dell’estate, poi, Vasco prenderà parte a due manifestazioni più importanti, il Radio Estate Giovani, allo stadio di Crotone, e il CantaVeneto, a Treviso, Padova e Asiago. In queste occasioni, oltre che Jenny è pazza e Silvia, Vasco eseguirà anche i brani che di lì a breve sarebbero finiti nel suo album d’esordio, … Ma cosa vuoi che sia una canzone…

Per la cronaca, le versioni di Jenny è pazza e Silvia che usciranno poi nel disco d’esordio saranno lievemente diverse da quelle uscite come singoli, se cercate bene su Youtube potete trovare le prime versioni e confrontarle con le successive. Quindi quarant’anni fa, oggi, usciva la prima incisione di Vasco Rossi, che di lì a poco avrebbe fatto il suo esordio anche dal vivo.

Fra qualche giorno, poco più di due settimane, Vasco festeggerà col suo popolo, anche con noi, i suoi primi quarant’anni di canzoni, di dischi, di concerti in quello che è il mega evento del primo luglio a Modena, Modena Park. Lui, la sua super band e duecentoventimila spettatori che arriveranno al parco Enzo Ferrari da tutta Italia, per dar vita a quello che è, a oggi, il concerto di un singolo artista con il maggior numero di pagati al mondo, record fino al primo di luglio in mano agli A-ha, con centonovantottomila spettatori fatti a Rio de Janeiro negli anni Ottanta.

Non è però tutto qui.

Perché se Vasco ha esordito discograficamente proprio quarant’anni fa, oggi, 15 giugno 2017, arriva nelle librerie di tutta Italia il libro “VASCO Da rocker a rockstar- Quella volta che mollai io la chitarra e nacque la band, opera a firma Vasco Rossi e mia. Lo so che non si dovrebbe scrivere di se stessi, ma sembra il caso di fare un’eccezione visto il compagno d’avventura d’eccezione, perché firmare un libro con Vasco Rossi non capita tutti i giorni, così come non capita tutti i giorni di pubblicarlo un libro di Vasco Rossi. Noi del Fatto Quotidiano l’abbiamo fatto, e da oggi lo trovate in libreria, dal 24 di giugno anche in tutte le edicole d’Italia, ottimo modo, fidatevi di chi ha raccolto le parole del rocker in questione, per prepararsi a questa grande festa rock che sarà Modena Park.

Una festa fatta di circa tre ore e mezzo di canzoni, con sorprese varie in scaletta, come non poteva che essere, ma anche con tutto quel che una festa prevede, dalla gente festante, il suo popolo, a una ruota panoramica, campi da calcio, da beach volley, una mongolfiera, e chi più ne ha più ne metta. Il tutto sotto un controllo e una sicurezza mai spiegata prima, per far sì che la festa sia appunto tale.

Le sorprese che abbiamo in serbo per voi non finiscono certo qui, e l’avvicinamento a Modena ci lascerà modo si svelare un po’ alla volta tutte le frecce nella nostra faretra. Per ora vi basti sapere che duecento pagine di parole, quelle di Vasco e anche un po’ mie, e tantissime foto inedite o rarissime vi attendono da oggi in libreria e dal 24 giugno in edicola. La storia di Vasco con un particolare focus sul live, sulle band che, dai tempi della Steve Rogers Band, arrivata nel momento in cui Vasco è sbocciato come rocker, a oggi, lo hanno accompagnato sul palco. Perché Vasco è il rock, in Italia. Modena Park è l’evento rock dell’anno. “VASCO Da rocker a rockstar” è il modo che abbiamo pensato per fermare questa magia sulla pagina, il fatto che esca il 15 di giugno, quarant’anni dopo Jenny è pazza/Silvia è una casualità, basta crederci…

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Donnarumma via dal Milan? L’ambizione di Gigio, la rabona del ‘villano’ Raiola e la magra figura di un povero Diavolo

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Je suis Gigio Donnarumma. Chiaramente, con trent’anni di più, circa trenta chili di più e con molti soldi di meno in banca, ma je suis Gigio Donnarumma. Perché trovo davvero disdicevole, anzi, disdicevole e ridicolo tutto quel che si sta dicendo intorno a quello che ormai possiamo tranquillamente definire come l’ex portiere del Milan. Ok, Gigio Donnarumma a soli diciotto anni dice di no a quattro milioni e mezzo di euro l’anno e a un contratto, si suppone di quattro anni, perché con la faccenda degli svincoli a zero euro ormai nessuno pensa a lassi di tempo più piccoli, col Milan, pluricampione del mondo. Però, per che cosa Gigio Donnarunma dice di no a così tanti soldi? Questa dovrebbe essere la prima domanda da farci, e possibilmente anche da fare a lui o a chi per lui può parlare, Mino Raiola. Mettiamo il caso che ci sia una squadra, che so?, il Real Madrid, il Paris Saint Germain, la Juventus che gli ha offerto molto di più, che so?, il doppio.

Perché mai Gigio Donnarumma avrebbe dovuto dire di no? Qualcuno dirà, per la bandiera. Siete seri? Cioè, un ragazzo di diciotto anni con una carriera presumibilmente importante davanti avrebbe dovuto dire di no alla possibilità di giocare in una squadra di tutto rispetto, per un compenso molto consistente per onorare una bandiera? Che bandiera? Quella del Milan? La squadra che da poco è stata comprata da un imprenditore cinese? Quella nel quale Gigio Donnarumma ha esordito sotto la guida tecnica di Sinisa Mihajlovic? Ma Mihajlovic non era stato bandiera dell’Inter, nel finale della sua carriera? Lì le bandiere non valgono? Non diciamo sciocchezze. Il calcio moderno non è fatto di bandiere, ma di soldi, che si tratti di quelli che si prendono i calciatori, tramite i loro procuratori, o quelli che si prendono le squadre, dalle televisioni in primis.

E Donnarumma ha il migliore dei procuratori, quello che gestisce i campioni più pagati. Mica sarà un caso. Il calcio moderno è quello con gli aggiornamenti delle figurine Panini, che offrono la possibilità di ricollocare i calciatori durante il mercato di gennaio anche negli album, altro che bandiere. Ecco, se un peccato c’è stato, da parte di Gigio e di Raiola, è stato che a comunicare questo passaggio non siano stati loro, ma il Milan, in quel modo, cioè dando al portierino del traditore. Se, per dire, fosse uscita la notizia della super offerta di una di quelle squadre la faccenda sarebbe stata diversa. Chiaramente la gente si sarebbe comunque incazzata, perché rifiutare a diciott’anni quattro milioni e mezzo di euro sembra una cosa contro ogni logica, ma rinunciarci per sette o otto milioni è altra faccenda. Resta che uno si potrebbe incazzare comunque, perché quelle cifre non le vedrà mai in vita sua, ma sarebbe altra faccenda.

Il punto è che a questo punto ovviamente non c’è altra scelta che vendere, per il Milan, perché l’anno prossimo Donnarumma se ne andrebbe svincolato a zero euro. E allora era ben far sapere che il cattivo di turno era lui, complice il cattivissimo Mino Raiola, quello di Ibrahimovic, quello di Pogba, tutti calciatori già tacciati di tradimenti. Comodo, così, per il Milan indicare un altro colpevole. Nei fatti loro gli hanno offerto una cifra importante, ma inferiore, su questo dovrebbero non esserci dubbi. E anche a livello di blasone, diciamolo, ultimamente non è che giocare nel Milan faccia così questo grande effetto. La vera domanda, converrete, è perché Raiola, che di mestiere fa il procuratore, e direi che lo fa anche piuttosto bene, abbia deciso di indossare sempre questi panni da cattivone, da villain, quasi da gangster. Non gli avrebbe giovato un profilo un po’ più basso, defilato? Sicuramente, facendo un estratto conto al bancomat e guardando quanto ha in banca, Raiola si starà facendo quattro risate, lasciando la mia domanda senza risposta. Sia come sia, je suis Gigio Donnarumma, con più anni, più pancia e meno soldi.

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LA POLEMICA DI DOMENICO NASO – La scelta di un ragazzino ingrato

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Concerto Vasco Rossi a Modena, 15mila persone per la ‘data zero’. E un palco mai visto prima – FOTO

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Che Modena Park abbia inizio. Anzi, Modena Park, l’evento musicale dell’anno, di più l’evento musicale record mondiale per numero di paganti per un solo artista è di fatto già iniziato. Ed è iniziato ieri, 29 giugno 2017, con la cosiddetta data zero, la prova aperta al Fan club ufficiale di Vasco Rossi, Il Blasco. Già il numero di coloro che hanno preso parte a questo prequel è impressionante, 15mila persone. Buona parte degli artisti italiani se li sognerebbe la notte quindicimila spettatori per un concerto. Figuriamoci per una prova aperta. Eppure tanti ieri sono accorsi al parco Enzo Ferrari di Modena, ormai per tutti il Modena Park. E tanti hanno assistito alla data zero del concerto che il primo di luglio vedrà accorrere nella città emiliana 220mila spettatori, circa trentamila in più di quanti non ne conti normalmente Modena.

Della scaletta e dello show, in questo articolo non leggerete nulla. Perché se è vero che cercando in rete si trovano titoli e anche video, è anche vero che spoilerare qualcosa oggi sarebbe davvero fuoriluogo, un modo antipatico di rovinare quella che sarà a tutti gli effetti la festa di Vasco Rossi. Festa per i quarant’anni dalla prima canzone incisa, Jenny è pazza. Quarant’anni dal primo concerto. Insomma, una festa per quarant’anni di musica. E siccome Vasco è partito da Modena per conquistare l’Italia, è giusto che a Modena tornasse per santificarsi.

E i modenesi, nonostante gli indubbi casini che la presenza di questo evento e di così tanta gente provocherà, sembrano aver preso assai bene questa invasione pacifica. Girando per le strade del centro, chiacchierando con i negozianti e la gente comune, vedendo la faccia di Vasco ovunque, nei bar come nei negozi, per non dire delle librerie, dove campeggia il nostro Da rocker a rockstar, edito da Paper First, e dove, questo è un annuncio in anteprima, a partire dalla metà di luglio si troverà anche un nuovo titolo, dedicato interamente al concerto, con il racconto per immagini e parole del Modena Park, risulta indubbio che Modena ha deciso per sua scelta di diventare per tutti la città di Vasco. Di più, visto l’evento che qui vedrà la luce proprio domani, Modena ambisce a diventare la capitale mondiale del rock.

E lo fa con una location capace di ospitare gli abitanti di una città medio grande, con un dispiegamento di casse, di schermi e di strutture per permettere a chi si occupa di gestire l’ordine pubblico davvero imponente, per non dire del palco gigantesco, una sorta di Carroponte, alto circa ventotto metri, come un palazzo di cinque piani, e largo centocinquanta. Un palco mai visto prima, a detta dei professionisti coinvolti ma anche stando alle testimonianze dei giornalisti presenti. Perché questa è sì una festa, ma è anche una prova muscolare di Vasco, che ha deciso di mettere in campo tutta la sua forza, e di richiamare a se’ un numero impressionante di persone.

La scaletta, lasciatemi dire giusto due parole, visto che di grande festa in musica si tratta, è davvero notevole, e presenta una infinità di chicche, per circa tre ore e mezzo di spettacolo. I titoli no, per quelli dovrete aspettare domenica mattina, quando la festa avrà il solito sapore, gusto di campane, che non è neanche male, e chi non ha capito, beh, allora non ha proprio nulla da festeggiare a Modena Park.

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È tutto rock’n’ roll: anche il formicaio che lavora al palco

Concerto Vasco Rossi a Modena, cancelli aperti per l’evento dei record. E in città e provincia si ferma tutto

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Cristo si è fermato a Vignola. Sì, a Vignola o in uno dei paesini del circondario modenese, possibilmente un po’ più distanti dal centro. Perché per un paio di giorni, questo ci dice la cronaca, intorno al capoluogo emiliano si è fermato tutto. Ma per una volta, questa la notizia fondamentale, non si è fermato per qualcosa di negativo, un evento climatico catastrofico, una manifestazione violenta, un incidente di un qualche tipo. No, stavolta a fermare tutto, ma proprio tutto, è stata la musica. Per due giorni, tre, forse anche quattro a fermare il mondo, o almeno a fermare il mondo modenese ci ha pensato Vasco Rossi e il suo Modena Park.

Deciso a festeggiare i suoi quarant’anni in musica, tanti ne sono passati dalla pubblicazione del primo singolo Jenny/Silvia, 15 giugno 1977, e dal suo primo concerto, evento di cui si è persa memoria precisa, Vasco ha accettato l’invito del sindaco di Modena di venire a celebrare la sua messa rock nella città in cui ha mosso i primi passi, e l’ha fatto davvero alla grande. Polverizzati in circa mezz’ora i primi centonovantamila biglietti, a gennaio, le stime ufficiali si sono fermate intorno alle duecentomila unità vendute, ma c’è chi vocifera che in realtà la cifra reale si aggirerà intorno alle duecentotrentamila. Nei fatti almeno vendituemila più di quanti non ne abbiano strappato gli A-Ha in quel di Rio De Janeiro ancora nel secolo scorso, record mondiale di biglietti venduti per singolo artista polverizzati in un nanosecondo.

Di qui l’accensione del motore di una macchina organizzativa senza precedenti, anche tenendo conto del cambio di assetto dopo il presunto scandalo del secondary ticketing (è proprio dell’altro ieri lo stralciamento dell’accusa di associazione a delinquere per Live Nation, e l’accusa ridotta a truffa e aggiottaggio, per altro ancora da dimostrare). Palco gigantesco ideato dal team di architetti e designer Giò Forma, regia quantomani rock nelle mani di Pepsy Romanoff, organizzazione affidata a Best Union e Big Bang. Numeri impressionanti, dalle ventinove torri di ritardo disposte nel parco Enzo Ferrari, ai megaschermi, uno di diciotto metri per quindici centrale, più altri quattro laterali, a coprire una buona porzione dei centocinquanta metri di estensione del palco, cui vanno aggiunti altri quattro megaschermi posizionati lungo il parco, per consentire anche a chi si trova lontano, ci sarà chi starà a trecento metri dal palco, di vedere Vasco e la sua super band.

Oltre due chilometri di transenne anti-panico si trovano nel terreno, per dividere le varie sezioni, e un lungo corridoio consentirà alla polizia di aggirarsi comodamente nei vari settori, in caso di necessità. Su tutto l’atmosfera di festa, con il pallone areostatico, i campi da beach volley, i tanti chioschi, il laghetto per farsi il bagno, con il presidio dei vigili del fuoco. I tanti alberi a costeggiare il tutto, una parte regalati al comune dallo stesso Vasco, riconoscente verso la città che ha deciso di ospitare questo evento. Ospitalità che ha portato, da qui eravamo partiti, al blocco di molte attività, dagli esami di maturità, rimandati eccezionalmente a settimana prossima, al normale transito dei mezzi pubblici, visto che il momentaneo raddoppio della popolazione avrebbe impedito ai suddetti mezzi di circolare rispettando orari, dalla chiusura dell’uscita dell’autostrada del Sole, Modena Nord in entrata all’anticipazione dei saldi estivi, arrivando alle sante messe sospese e, ultima notizia, alla momentanea sospensione anche dei funerali. Se di messa cantata, in effetti, si tratta, ecco il miracolo, almeno per un paio di giorni, a Modena, non servirà morire, tanto nessuno potrebbe celebrare il rito funebre, tanto vale aspettare settimana prossima.

E mentre in città magari qualcuno lamenterà qualche disagio, ristoratori, albergatori e negozianti si sfregano le mani per questa fiumana di gente che già nei giorni precedenti è arrivata in città, portando festoso baccano ma anche soldi da spendere. Per quel che riguarda il resto, invece, la certezza che dal primo di luglio del 2017 Modena sarà in tutto il mondo la città che ha ospitato il più grande concerto a pagamento di un singolo artista, record assoluto, a cui va aggiunto un altro record, stavolta voluto dal questore. Modena Park, infatti, è anche il concerto i cui cancelli sono stati aperti più ore prima dell’evento, circa ventiquattro. Venerdì 30, infatti, alle 21 e 20 i cancelli sono stati aperti. Il primo a entrare, ovviamente correndo, e a guadagnarsi il posto più vicino al centro del palco è un ragazzo di ventidue anni di Domodossola, Emanuele Zappa. A lui la postazione migliore e i saluti con foto di rito da parte del sindaco di Modena Gian Carlo Muzzarelli. Sindaco che ha poi provveduto, attraverso la protezione civile, a far pervenire all’interno del parco delle coperte per la notte. Insomma, che la festa abbia inizio, anche con ventiquattro ore di anticipo. Dalle 21 sarà poi la volta della musica, vera protagonista di questa festa, e ci sarà lui, Vasco Rossi da Zocca, provincia di Modena, Modena Park.

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Il rock ha un solo nome. Vasco sul tetto del mondo

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Ho perso un’altra occasione buona. Pran pran. Non poteva che cominciare così, Modena Park, la festa per i quarant’anni di musica di Vasco Rossi. Con quella Colpa d’Alfredo, canzone ironica e vera summa vascorossiana, che evocava già a inizio anni Ottanta proprio il nome di quello che sarebbe diventato il concerto senza fine, per dirla […]

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Concerto Vasco Rossi, le chicche della scaletta di Modena (dove l’organizzazione ha funzionato). La buonanotte del Blasco: “Siete i più belli, ce la farete tutti”

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Ho perso un’altra occasione buona. Pran pran.
Non poteva che cominciare così, Modena Park, la festa per i quarant’anni di musica di Vasco Rossi. Con quella Colpa d’Alfredo, canzone ironica e vera summa vascorossiana, che evocava già a inizio anni Ottanta proprio il nome di quello che sarebbe diventato il concerto senza fine, per dirla con le parole dello stesso Blasco sul palco, l’evento epocale.
Abito fuori Modena, Modena Park, diceva Vasco alla tipa che, nella storia raccontata nella canzone, gli chiedeva un passaggio a casa, passaggio che poi l’improvvido arrivo di Alfredo avrebbe vanificato. Chissà se stasera Alfredo è qui, in mezzo a questa marea di anime, così tante da rendere il Modena Park il “quattordicesimo comune d’Italia per popolazione”, spodestando momentaneamente Padova coi suoi duecentonovemila abitanti.

Ho perso un’altra occasione buona. Pran pran.
Modena Park, un nome che in realtà, fino al primo luglio 2017 non aveva una collocazione geografica, perché come lo stesso Vasco ci ha raccontato nel libro Da rocker a rockstar, era un suo modo per parlare della vita frenetica di quegli anni lì, in cui Modena, la città in cui il nostro era arrivato dalla natia Zocca, era una sorta di Luna Park, accesa ventiquattro ore su ventiquattro.
Modena Park, quindi, così si chiamerà da oggi il Parco Enzo Ferrari che ha ospitato l’evento, un concerto di tre ore e mezzo, trentasette canzoni in scaletta, duecentoventimila, forse anche duecentotrentamila spettatori di fronte, il popolo del Blasco.

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Guido Elmi, morto lo storico produttore e compagno di strada di Vasco Rossi

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“Quelli che poi muoiono presto, quelli che però è lo stesso…”. Questi versi di “Siamo solo noi” potrebbero introdurre una notizia tragica e improvvisa come la morte di Guido Elmi, storico produttore e compagno di strada di Vasco Rossi. Potrebbe, perché c’era già lui al fianco del rocker di Zocca a tempi di “Siamo solo noi”, quando Vasco smetteva i panni di cantautore per diventare a pieno titolo la rockstar che ha portato proprio recentemente duecentotrentamila persone a Modena, in occasione del Modena Park. Potrebbe, perché i versi di “Siamo solo noi”, inno di tutti coloro che non si riconoscono nel sistema, gli altri, i noi che Vasco più di ogni altro ha saputo cantare, quei versi erano adattissimi a descrivere la filosofia di vita di Guido Elmi, raffinato intellettuale votato alla musica, uomo più votato all’ascolto che al parlare, sempre capace di intuire la soluzione musicale giusta, la canzone giusta da infilare nella scaletta di un tour o di un album, i musicisti da proporre per la band. Un produttore musicale, uno che aveva rinunciato sin da subito a fare musica, salvo poi tornarci su di recente, col suo debutto rock dal titolo “La mia legge”, avvenuto a sessantotto anni.

Una rinuncia in prima persona che lo aveva portato, però, a diventare una figura centrale nel lavoro di Vasco Rossi, come trentasette anni di collaborazione dimostrano. Noto agli amici come Steve Rogers, proprio nel momento in cui la Steve Rogers Band aveva tentato la strada solitaria, ormai una vita fa, Elmi si era allontanato da Vasco, salvo poi fare ritorno per inanellare una serie infinita di successi, ultimo, appunto, il live di Modena. Un live che iniziava con “Colpa d’Alfredo”, primo album prodotto proprio da Elmi, e che lo ha visto salire sul palco per un insolito saluto, invitato dal direttore di palco Diego Spagnoli. Ecco, quel suo saluto, dinoccolato, sornione, timido, quasi malinconico, racchiude molto del carattere di un uomo che è stato capace, in una carriera lunga quarant’anni iniziata dopo una laurea in Scienze Politiche nella sua Bologna, di rischiare tanto al fianco dell’iconoclasta per antonomasia della nostra musica, e che lo ha anche visto raccogliere sempre al suo fianco così tanti successi.

Dal 1980, fatta salva la piccola parentesi a cavallo tra anni Ottanta e Novanta, Guido Elmi ha co-prodotto tutti i lavori di Vasco Rossi, sia in studio che dal vivo. Uomo di grandi capacità organizzative, per ammissione dello stesso Vasco il migliore quando si tratta di mettere su la scaletta di un concerto come di un album, Elmi ha praticamente subito abbandonato gli strumenti, lui che inizialmente accompagnava Vasco alle congas, per dedicarsi a un lavoro manageriale, da produttore artistico. Chi ha avuto modo di parlarci di persona ben sa come certe influenze metal, specie di certo metal nord-europeo, siano arrivate da lui, da sempre appassionato di musica dura. Modena Park, la sua ultima direzione artistica, un record mondiale, rimane il suo commiato al mondo della musica e al mondo. Un addio fatto con discrezione, la sua giacca militare portata sui bermuda, lo sguardo di chi poi se ne va presto, anche se non è affatto lo stesso…

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Vasco Mondiale al Modena Park- La tempesta perfetta, l’epica avventura del concerto più grande del mondo diventa un libro

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Il mestiere dello scrittore è piuttosto strano, generalmente prevede che tu passi intere giornate in casa, isolato, provando a tirare dei fili che dovrebbero poter arrivare a più gente possibile, complice la fantasia. Quasi un controsenso in termini, isolarsi per cercare una via comunicazione col mondo, che può a volte avere delle eccezioni, nel momento in cui lo scrittore decide, hemingwayanamente, di andare a vivere in prima persona le storie che intende raccontare. Eccezione nell’eccezione, quando lo scrittore si trova a raccontare non solo una propria esperienza, ma una propria esperienza eccezionale, o il suo aver preso parte a un evento eccezionale.

Questo è successo, e “Vasco Mondiale al Modena Park- La tempesta perfetta” prova a raccontare il più grande concerto a pagamento al mondo di un singolo artista dal punto di vista dei due autori, Vasco Rossi e mio, che ora mi trovo a raccontarvi in poche righe questa esperienza. Per chi vive di parole non c’è niente di più frustrante della consapevolezza che basta un numero a vanificare ogni proprio sforzo di dire l’essenza di un fenomeno. Ma l’idea che il primo luglio 2017 duecentotrentamila persone siano accorse da ogni angolo d’Italia per rendere il parco Enzo Ferrari di Modena location dell’evento epocale della musica italiana è più forte di qualsiasi frase. Duecentotrentamila persone. Provate a pensarle. Provate poi a pensare di radunarle in un posto altrimenti considerato periferico, radunateli senza problemi, a pochi giorni dalla strage di Manchester al concerto di Ariana Grande e a un mese dai tristi fatti di Torino.

Fateli entrare ordinatamente in un parco, sottoposti a controlli certosini, fateli stare tutto il giorno sotto il sole, magari, sempre più assiepati. Ecco, provateci, e provate a pensare cosa sia stato tutto questo per Vasco, nato a Zocca, neanche cinquemila abitanti, e ora rockstar italiana per antonomasia. Questo è stato Modena Park, e molto altro. Una impresa epica, degna di un eroe greco o latino, così ho provato a raccontato al alternando le mie sensazioni, i miei appunti, il mio reportage, alle parole di Vasco, partendo da quando Modena Park era solo una intuizione, via via, fino all’ideazione della scaletta, alla partenza dell’organizzazione logistica, di quella tecnica, alla costruzione di una nuova struttura per la vendita dei biglietti, dopo il casino del secondary ticketing. Una avventura epica.,una grande festa che ha visto una folla oceanica cantare, ballare, commuoversi, tutti guardati in faccia, uno per uno, da Vasco. Modena Park. Il libro, corredato da tantissime foto inedite, è il documento di un evento unico, il racconto fedele e emozionale di un grande evento sociale e artistico.

Duecentotrentamila persone che danno vita a una messa laica. Anzi, duecentotrentamilaeuno persone. Anche se… “Io quando sono sulle scalette che portano il palco comincio a sentire tutta l’energia che mi manderete addosso, l’energia che poi io devo essere in grado di rendervi durante il concerto, ma sento anche paura, molta paura. Non me ne vado solo perché non posso farlo, se no scapperei lontano.”

Ma Vasco poi quelle scalette le sale sempre tutte e ogni volta è una festa, a Modena Park una festa esagerata. E siccome a far festa ci si trova bene, ieri, incontrando un gruppo selezionati dei suoi fan a Bologna, per presentare il libro e il film che Pepsy Romanoff, regista anche dell’impianto visivo del Modena Park porterà nei cinema a dicembre, Vasco ha annunciato bruciando tutti i rumors, le prossime date, quelle del l’atteso VascoNonStop Tour 2018. Sette date, ha detto, su cinque città: Torino, Padova, Roma, Bari e Messina. Data zero non ad Ancona, ma a Lignano. “Niente Milano, perché,” ha detto, “è l’assenza a alimentare il desiderio.
Che ci attenda un 2019 da record con cinque, sei San Siro di fila?

L'articolo Vasco Mondiale al Modena Park- La tempesta perfetta, l’epica avventura del concerto più grande del mondo diventa un libro proviene da Il Fatto Quotidiano.

Modena Park diventa libro Vasco: “È stato un miracolo”

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“Ho cantato per un mese tutti i giorni tutta la scaletta tre ore e mezza, volevo salire sul palco bello fresco come una rosa. Tranquillo. Preparato. Morbido. Solido e solito”. Vasco dixit. Aggettivi alla Vasco, verrebbe da aggiungere. E di aggettivi, per parlare di Modena Park, in questi mesi ne sono stati spesi tanti. Trovandomi […]

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La musica in sala non funziona. Tranne “Vasco Modena Park”

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