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Channel: Michele Monina – Il Fatto Quotidiano
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David Bowie, un anno fa gli abbiamo detto addio ma continuiamo ad averlo accanto

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La morte ci fa paura. Siamo nel 2017 e su questo nulla è ancora cambiato. La morte ci fa paura e per questo cerchiamo di fronteggiarla come possiamo. Con la scienza, sicuramente, ma anche con le parole. Sì, cercando di darle un senso, e di ammansirla, di smussarne le asperità con termini che la rendano innocua, meno capace di farci star male. Non è un caso che difficilmente diciamo di qualcuno che è morto. Ricorriamo a perifrasi, a concetti cristallizzati in giochi lessicali preconfezionati: “è mancato”, “se n’è andato”, “è passato a miglior vita”, “è salito in cielo”.

Ecco, ricordando David Bowie a un anno dalla sua morte non si può non partire da qui. Dal fatto che mai come nel caso di David Bowie, artista immenso che è morto il 10 gennaio del 2016, esattamente due giorni dopo aver consegnato al mondo quel capolavoro di Blackstar, suo ultimo album considerato a ragione un vero e proprio testamento artistico, mai come nel caso di David Bowie, dicevamo, dire “è salito al cielo” potrebbe suonare pertinente. Non per questioni meramente religiose, è chiaro il riferimento alla collocazione alta, iconograficamente, del Paradiso, in quell’espressione, quanto un posizionamento a metà strada tra l’astrale e l’astratto cui la sua musica ambiva e ambisce. David Bowie ha spesso giocato con le stelle, nelle sue canzoni, nel suo multiforme immaginario, nei riferimenti alti di cui ha infarcito le sue canzoni, quelle fortunatamente rimaste nel pianeta Terra insieme a noi.

Un anno fa moriva David Bowie, ultimo tocco d’artista alla vita di un’artista che proprio negli scorsi giorni avrebbe compiuto settant’anni. Un gesto d’artista, la sua morte, perché iscritto nel progetto di Blackstar. O viceversa. Nei fatti il cantautore inglese, che per rispetto nei suoi e nei vostri confronti eviteremo di chiamare Duca Bianco o Ziggy Stardust, due dei nomi cui è ricorso nella sua incredibile carriera, è morto dopo aver consegnato all’umanità, lui alieno a prescindere dai personaggi che aveva deciso di raccontarci in musica, un lavoro che della morte parlava ed era intriso. Senza paure, certo, ma con consapevolezza. La notizia della sua morte, e scusate se continuiamo a chiamarla così, senza ricorrere a sinonimi, ha sconvolto il mondo.

Perché se è vero che da tempo si parlava della sua malattia, David Bowie sembrava destinato, sorte cara ai veri artisti, all’immortalità. Invece, mentre ancora guardavamo in loop il video di Lazarus, che della morte parla già nel titolo, così carico di significati altri da risultare quasi spiazzante, lui moriva, facendosi opera d’arte. Talmente la notizia ha  sconcertato il mondo musicale, che poi sarebbe stato colpito da altre morti eccellenti nel corso dell’anno orribile della musica, che qualcuno ha sospettato e fatto illazioni su una sua morte tenuta nascosta proprio al fine di far parlare di Blackstar. Notizia talmente balzana da non meritare commenti ulteriori. Nei fatti Blackstar è finito, e non poteva che essere così, in tutte le classifiche dei migliori album del 2016, perché questa strana commistione tra rock e jazz, nu-jazz, trattatata con il tipico piglio bowieano, capace di passare tra i generi rimanendo sempre se stesso, non poteva che lasciare un segno indelebile.

Come del resto ha lasciato un segno indelebile buona parte della sua immensa produzione, passata con leggerezza e eleganza per sei decadi, dal cantautorato di matrice folk al glam-rock, passando per suoni più sperimentali e aspri, per la pop-dance anni Ottanta, per l’elettronica spinta dei novanta, via via fino a noi, decine e decine di canzoni entrate nel nostro patrimonio culturale, accompagnate da immagini, intuizioni visive, video, fotografie, mascheramenti, mimetismi, film che hanno contribuito a rendere la sua figura unica, incredibilmente unica. Oggi ricorre un anno dalla sua morte. Molti condivideranno la sua musica sui social, ed è giusto così. La musica non muore. Non scompare. Non passa a miglior vita. Vola alta in cielo, sì, e ci porta con sé.

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Baustelle, esce L’Amore e la violenza: citazionista fino allo sfinimento ma da ascoltare. Nonostante i Baustelle

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Monteodorisio è un bellissimo paesino nell’entroterra chietino. Un borgo arroccatto sul cucuzzolo di una collina, con alle spalle la Maiella e di fronte il mare Adriatico nel punto in cui l’Abruzzo confina con il Molise. Anni fa, a Montodorisio si è tenuta una tappa di un bellissimo festival che si chiamava Cammini Europei e portava, appunto, per paesi e borghi abruzzesi artisti e band di interesse per un pubblico giovane (non giovanissimo) e colto. A Monteodorisio suonavano i Baustelle. Essendo in vacanza in zona, a Vasto, decido di andare. Lascio la macchina, come tutti i partecipanti all’evento, ai piedi del colle e vengo trasportato sotto il paesino con una navetta messa a disposizione dagli organizzatori, poi salgo con una fiumana di giovani verso il paese. Il concerto si tiene nella piazza principale. I Baustelle attaccano a suonare le loro canzoni. La piazza esplode entusiasta. Da una delle finestre del paese si affaccia un vecchietto in canottiera. Si sporge verso il palco, bestemmia, e chiude le finestre, tirando giù le persiane. I decibel che escono dalle casse e i cori del pubblico devono aver reso vano il tentativo molto romantico del vecchietto di porre una persiana tra sé e i Baustelle.

Ecco, io mi sento come il vecchietto di Monteodorisio. Esce L’amore e la violenza e vorrei porre qualcosa tra me e questa uscita. Perché tutti, ma proprio tutti tutti ne stanno parlando. Nella maniera che i Baustelle prevedono ultimamente, o con toni enfatici al limite dl fanatismo o con odio e astio che solitamente si dovrebbe riservare a musica decisamente più nociva. Il fatto è che intorno ai Baustelle si spendono sempre troppe parole, e i primi a farlo, in qualche modo, sono proprio i Baustelle stessi, rendendo le loro canzoni, anche quando pretendono di essere solo canzoni pop, come in questo caso, altro. La faccenda, ovviamente, tende a infastidire chi, per varie ragioni, pensa che le canzoni dei Baustelle siano, appunto, canzoni pop, quindi da prendere per quel che sono, non per trattatelli filosofici, tanto per citarli. Dopo il Moloch Fantasma, ci dicono i Baustelle, è il momento del pop di L’amore e la violenza, un album in cui i nostri decidono di affrontare la forma canzone guardando seriamente alla forma canzone, quindi alla melodia, ai testi e agli arrangiamenti, e partendo dal punto di vista, rispettabile ma anche opinabile, che la forma canzone si sia in qualche modo impantanata col volgere degli anni Ottanta.

Ecco, i Baustelle con L’amore e la violenza decidono di dare vita a un album citazionista fino quasi allo sfinimento, fatto di brani che, nella loro fantasia, guardano a quel periodo. Ora, il citazionismo stilistico e formale rivisto e corretto non è certo un’invenzione dei Baustelle, e anche l’usare un lessico fuori dal tempo misto a parole odierne. Fossimo in letteratura parleremmo, ma anche qui finiremmo nel loro stesso gioco, di Avant Pop. Non a caso David Foster Wallace, autore che all’epoca della nascita del suddetto genere letterario, era uno dei massimi alfieri dell’Avant Pop, è finito dentro una delle canzoni, Basso e batteria, che non a caso comincia col giro introduttivo della sigla di Sandokan. Alto e basso, antico e moderno, insomma, ci siamo capiti.

In realtà, mi sembra, L’amore e la violenza è un bell’album dei Baustelle, nonostante i Baustelle. Nonostante quello che i Baustelle ci hanno raccontato di L’amore e la violenza, nonostante quelli che scrivono dei Baustelle ci hanno raccontato de L’amore e la violenza. Proporrei una moratoria. Da oggi i Baustelle non parlino più, Bianconi si tagli i baffi e smetta di vestirsi come fosse un bohemien, faccia il cantante, lo scrittore, quel che è senza necessariamente fare anche l’attore. Perché i testi delle canzoni di questo lavoro, le melodie curate, nonostante la voce di Bianconi, i suoni ricercati (i sinti, per dirla con Savastano, le batterie che non sono batterie), meritano l’ascolto e il fatto che loro ambiscano così tanto a starci sul cazzo fa correre il serio rischio di impedire un ascolto sereno. Essere intelligenti e colti, mettersi nella posa di chi non vuole far troppo vedere di essere intelligente e colto per far in realtà vedere di essere intelligente e colto, questo sembra il giochino del giorno in casa Baustelle, mentre basterebbe lasciare che a parlare fossero le canzoni, da Il Vangelo di Giovanni a Eurofestival fino alla conclusiva e degregoriana Ragazzina.

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Vasco Rossi, biglietti per il Modena Park in vendita dal 27 gennaio. I nuovi organizzatori: “Onorati della scelta del Kom”

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Partiamo da quello che i tanti fan stavano aspettando con ansia, il 27 gennaio 2017 alle ore 10. Data e orario in cui i biglietti del mega evento che Vasco Rossi terrà il 1 luglio a Modena Park verranno messi in vendita. Il 24 e 25 i biglietti saranno preventivamente in vendita per gli iscritti al fanclub, come sempre succede in occasioni del genere: 75, 65 e 50 euro il costo delle tre tipologie di biglietto, relative alle tre aree in cui verrà diviso il parco dedicato a Enzo Ferrari che ospiterà il concerto atto a festeggiare il quarantennale dall’esordio discografico del rocker di Zocca, prezzi questi cui andranno aggiunti costi di prevendita e diritti accessori in questo caso specifico calmierati per scelta di tutti gli operatori coinvolti.

Ed eccoci alla parte più rilevante per addetti ai lavori, le parti coinvolte in questo mega evento.
I fatti sono noti: ai primi di novembre del 2016 scoppia lo scandalo del secondary ticketing che vede direttamente coinvolti Live Nation e Roberto De Luca, smascherati da un servizio de Le Iene che ha evidenziato come la multinazionale sia coinvolta direttamente in questa pratica e Vasco, l’artista italiano più importante nel roster di Live Nation Italia, rescinde il proprio contratto. Il tutto con un mega evento come quello di Modena, pensato in una location che potrebbe arrivare in linea teorica arrivare a contenere fino a quasi quattrocentomila spettatori (più realisticamente saranno la metà), alle porte.

“Non siamo qui a raccontare che abbiamo sconfitto il “secondary ticketing”, noi non abbiamo il potere – né la pretesa – di oscurare Viagogo e i siti similari. Ma è nostro dovere combattere il fenomeno prima che dilaghi”, si legge in un post apparso martedì 17 gennaio sulla bacheca dello stesso Vasco.

Subito sono partite le voci su chi sarebbe subentrato a Live Nation al fianco del Blasco, ma il nostro ha sorpreso tutti organizzando una conferenza stampa nella sede milanese della SIAE in cui è stata presentata la squadra che si occuperà della vendita dei biglietti, posticipando a un secondo momento la presentazione della squadra che logisticamente organizzerà l’evento, e di conseguenza posticipando anche il numero di spettatori reali che questo mega evento potrà in effetti ospitare.

La SIAE quindi. Questo il primo partner, chiamato a vigilare sulla liceità delle operazioni di vendite.
Durante la conferenza, aperta dall’avvocato di Vasco, il dottor Costa e dal suo storico manager, Floriano Fini, Gaetano Blandini, Direttore Generale della SIAE, ha commentato: “La SIAE sarà partner tecnico per supportare gli organizzatori per sperimentare per la prima volta una sorta di “protocollo anti secondary ticketing”, trasparente e rigoroso: protocollo che vorremmo fosse abbracciato da tutti gli operatori del settore. Come SIAE, insieme a Federconsumatori, continueremo la battaglia intrapresa contro questo fenomeno, impegnandoci in tutte le attività possibili volte a combatterlo, sia perché penalizza i consumatori, soprattutto i più giovani, sia perché rappresenta un freno inaccettabile alla crescita economica e alle opportunità di lavoro nel settore dello spettacolo e della cultura”.

Secondo partner, in realtà primo, perché chiamato proprio ad accompagnare Vasco e il suo staff nell’organizzazione di tutti i passaggi una azienda italiana presente anche all’estero, già impegnata con successo nella gestione dei biglietti per l’Expo di Milano, la Best Union. A rappresentarla durante la conferenza Luca Montebugnoli, Presidente e Amministratore Delegato di Best Union Company S.p.A., che ha commentato: “Siamo onorati della scelta del Kom e faremo di tutto perché il 1 luglio sia un festa degna della grandezza di Vasco. Un Maestro di serietà e correttezza come è Vasco ha riconosciuto il nostro lavoro di trasparenza ed onestà: un motivo in più per servire con orgoglio i suoi fans”. Senza entrare nel dettaglio, tutti gli operatori presenti hanno dichiarato ferma volontà di porsi con chiarezza e limpidità nei confronti del pubblico, quindi degli acquirenti. Quel che si prospetta una sorta di avvicinamento al biglietto personale già presente nelle partite di calcio, fatto che non può impedire in sé il secondary ticketing, ma che sicuramente lo renderà più difficoltoso.

Vasco sarà quindi una sorta di nave scuola su questo fronte, sperimentando con la SIAE e Best Union (Vivaticket, società di proprietà di Best Union si occuperà fisicamente di vendere i biglietti) una nuova via che potrà poi essere seguita dagli altri. La stessa Best Union ha creato una società chiamata Big Bang che si occuperà della produzione del concerto, anche se non sono stati fatti i nomi degli operatori che si interfacceranno alla neonata società per l’occasione. Per conoscere questi dettagli toccherà aspettare il prossimo step. Per ora dal 27 i biglietti saranno in vendita, il popolo del Blasco non starà più nella pelle.

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Sanremo 2017, abbiamo ascoltato i brani in gara: le recensioni del FattoQuotidiano.it

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Ron- L’ottava meraviglia
Ron è Ron. Bravo, profondo, con quella storia lì. L’ottava meraviglia è una ballad sanremese senza picchi verso l’alto né verso il basso. Niente di indimenticabile, per capirsi, ma portato a casa con dignità e eleganza. Da lui ci saremmo aspettati qualcosa di più, ma nell’insieme siamo sicuri che resterà in piedi tra le rovine di questa edizione

Sergio Sylvestre- Con te
Funziona così. Il gigante buono, quello con la voce come Mario Biondi, ma di colore, arriva a Sanremo con un brano che suonerebbe benissimo in bocca a un qualsiasi cantante R’n’B americano. Con un testo scritto da Giorgia. E con un coro di bambini. Insomma, detta così qualcosa di davvero bello. In realtà non è così. La canzone è davvero una robetta. Cantata da Giorgia sarebbe stata altra cosa, ma ‘grazie al cazzo’, dirà qualcuno.

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Bruce Springsteen vs Trump: “E’ iniziata una nuova resistenza”. Così il Boss dice la sua

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Neanche il tempo di smettere di ballare, lì, con la sua Melania, che Trump si trova a fronteggiare la prima rivolta della sua era da Presidente. Non fossero bastati i tanti artisti che hanno appoggiato la Clinton durante la campagna elettorale, campagna elettorale che ha visto Trump uscire vincitore a dimostrazione che la buona musica e il bel cinema evidentemente non spostano così tanti voti, ora sembra proprio che gli artisti anti Trump non abbiano mollato il colpo e vogliano fare da contrappunto alla sua politica a suon di concerti, marce, dichiarazioni a effetto. Così, mentre Trump attacca l’Obamacare, di fatto provando a rendere nuovamente privata la sanità negli USA, da Madonna a Amanda Palmer, gli artisti che fin qui si sono detti contrari all’elezione del quarantcinquesimo presidente degli Stati Uniti d’America alzano la voce, pronti a tenere d’occhio l’asticella della democrazia americana.

E se tutti, ma proprio tutti tutti, hanno sentito Meryl Streep attaccare duramente il capitalista che ora risiede alla Casa Bianca, durante la premiazione dei Golden Globe, e molti hanno sorriso sentendo Madonna dichiarare a gran voce che “Trump deve succhiare il cazzo”, è la volta di Bruce Springsteen di dire la sua. Il Boss, già schierato a fianco della Clinton durante la campagna elettorale, e chiamato da Obama a rallegrare le ultime ore della sua permanenza alla Casa Bianca con un concerto privato, ha detto la sua riguardo il nuovo corso della politica americana, e non sono state belle parole.

Il Boss, prima del concerto con la E Street Band alla Perth Arena, ha detto che considera Trump un demagogo, arrivando a definire la sua partecipazione alle manifestazioni che hanno raccolto qualcosa come cinquecentomila persone tutte riunite contro il presidente in carica una forma di “nuova resistenza”. Parole pesanti dette da una voce autorevole, specie perché molto seguita anche da quel popolo operaio che così tanto sembra aver preso a ben volere Trump, complici le promesse di riportare lavoro negli Stati Uniti, con una politica di protezionismo e di incentivi a mantenere in patria la produzione di manufatturiera. Se infatti i tanti artisti black e rap che hanno sostenuto per gli anni del suo cammino presidenziale potevano non avere seguito presso l’elettorato trumpiano, è chiaro che il rock energico e roots di Springsteen sarebbe la perfetta colonna sonora di chi Trump ha voluto nella stanza Ovale. Sia come sia, se la storia recente ci insegna qualcosa, una certezza possiamo averla: nei prossimi anni si tornerà a sentire ottima musica di protesta.

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Lapo Elkann e l’addio (o l’arrivederci) ai social. Ecco perché ci mancherà

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Lapo se n’è andato e non ritorna più. O meglio, magari torna, perché non ha detto addio, ma solo arrivederci. Il che ci mette al riparo dall’arrivo sulle scene di una nuova Laura Pausini, perché di brutte notizie così, una basta e avanza. E la notizia è che Lapo lascia i social. Almeno per un po’. Perché, dice (ovviamente sui social, e dove se no?), che preferisce vivere la vita reale. Sottintendendo, quindi, che quella dei social non è vita. Il che ingenera un paradosso degno di Wells. Il fatto è che Lapo sui social ci è sempre stato, e si è sempre beccato anche un sacco di merda. Un pochino, ma giusto un pochino, eh, per merito suo, perché la vita reale di Lapo non è che sia esattamente l’incarnazione del low profile e della routine. Per dire, è noto come il mondo dei social sia una sorta di amplificatore potentissimo dei mal di pancia della gente. Star qui a fare un singolo caso sarebbe come voler indicare un singolo capello nero sulla testa di una finta bionda per parlare del problema della ricrescita. Uno ha successo, ecco che arrivano gli haters. Uno ha successo e fa una cazzata, ecco che arrivano milione di haters. Uno presta minimamente il fianco, ecco che arrivano miliardi di haters. Lapo, sul fronte cazzate, è una sorta di maestro Jedi. Lo Yoda delle cazzate. Anche qui, cercare esempi esemplari diventa operazione improba. Su tutte, magari, la volta che è andato a divertirsi lasciando la sua auto, in tinta mimetica, quindi vagamente eccentrica, sulle rotaie del tram.

Per non dire dell’ultima vicenda di cronaca, che l’ha visto, stando ai quotidiani americani, chiedere un micro riscatto di diecimila dollari ai familiari, perché in mano a presunti rapitori. Roba che manco La banda del Buco. Ma è proprio per questo che Lapo ci piace, e piace alla gente, anche quella che lo insulta. Oltre mezzo milione i suoi followers su Instragram, trecentocinquantamila su Facebook, non proprio noccioline. Tanta gente che da oggi, se vorrà avere a che fare con lui, con il Shane McGowan della famiglia Agnelli, dovrà cercarlo offline, nella vita vera. Perché Lapo questo cerca, oggi, una vita vera. Una vita, si suppone, che lo veda camminare sempre su quei binari (no, non quelli del tram bloccato dalla sua auto in tinta mimetica), dai quali è spesso uscito, come il Buffalo cantato da De Gregori in Buffalo Bill. Ecco, Lapo oggi vuole mettere la testa a posto, e per farlo, sembra, ha optato per disintossicarsi dai social. Fermi tutti, non state lì a fare battutine, anche i social danno dipendenze, e gestirli può essere un lavoro duro, specie per chi, magari, non ha una concezione della vita da quaranta ore settimanali alla catena di montaggio, a meno che non si tratti delle quaranta ore di qualcun altro.

Ci mancherai, Lapo, sapere che te ne vai dai social proprio oggi che il tuo collega John Lydon compie gli anni, sessantuno per la precisione, fa assumere al tutto uno strano sapore. Perché sapere che la sola rockstar italiana non accompagnerà le nostre giornate online è un po’ come scoprire che la nostra vecchia maestra non insegna più alla scuola che frequentavamo da bambini, che l’edicola dove compravamo le figurine è diventata un negozio di sigarette elettroniche (quindi ora è chiusa definitivamente) e che le riviste porno che leggevamo da ragazzini oggi non esistono più. Per dirla con Moretti, i pomeriggi con pane e Nutella non torneranno mai più, ma tu, almeno, torna, torna presto.

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John Wetton, addio alla stella del prog rock

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Non poteva essere finita così. Chi mai avesse pensato che la tragica sequela di morti importanti nel mondo della musica avvenuta nel corso del 2016 sarebbe semplicemente finita con il primo di gennaio del 2017 era un folle. Perché dietro quella sequela di morti c’è una questione meramente anagrafica, non nascondiamoci dietro cabale o credenze mistiche, e perché la morte non si fa certo fregare dai calendari. Così ecco che il 2017 comincia col presentare il suo conto, mettendo sul piatto subito un nome importante, uno dei pilastri della scena prog, John Wetton.

Aveva sessantasette anni e fossimo in vena di poesia diremmo che ha perso la sua battaglia con un cancro al colon. Ex membro dei King Krimson, durante l’era Red, cioè nei primi anni Settanta, Wetton ha in realtà collaborato con una porzione impressionante di band, dai Roxy Music di Brian Ferry agli Uriah Heap passando per gli UK, finendo poi per dar vita con una parte degli Yes e degli Emerson, Lake & Palmer agli Asia, realtà con la quale ottenne i suoi maggiori successi di critica e commerciali. Pensare che proprio l’anno scorso sono morti Keith Emerson e Greg Lake fa impressione, perché dimostra come la dipartita del cantante e bassista che ha in Heat of the Moment, anno di grazia 1982, la sua maggiore hit, contenuta nell’album omonimo Asia, il più venduto al mondo di quell’anno, sia solo l’ennesimo segno che il tempo passa e passando si porta via tutto il bello del secolo scorso.

Perché Wetton, che ha poi proseguito i decenni successivi alternando una carriera solista dignitosa ma altalenante a reunion degli Asia, in compagnia del solo Geof Donwes, è stato uno dei musicisti più importanti di una scena, quella prog, che ha fatto dell’essere virtuosi del proprio strumento, il basso e la voce nel suo caso, un fondamento. Il clamoroso successo dell’ultimo tour dei suoi King Crimson, nella versione precedente al suo ingresso, quella originaria, dimostra come questa musica sia ancora molto apprezzata dai cultori del rock, e come, nonostante i tempi siano cambiati e coi tempi sia cambiato anche il modo di fruire la musica, ci sono suoni e canzoni capaci di superare i decenni. Ex alcolista, Wetton è stato a lungo testimonial della campagna contro i rischi dell’alcool, a dimostrazione che un grande artista può essere anche un grande uomo.

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Sanremo 2017, i testi delle canzoni: dal premio “grazie al caz**” che va a Chiara al nuovo (imperdibile) tormento di Alessio Bernabei

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Popopò. Queste tre sillabe sono l’intro dello storico jingle che il maestro Pippo Caruso nel secolo scorso ha scritto per Sanremo. Sì, quel jingle lì, quello che chiosa con l’ormai classico “Perché Sanremo è Sanremo”. Tutto vero. Sia il popopò che il Sanremo è Sanremo. E Sanremo è Sanremo anche in virtù di certi riti, che si ripetono da quasi settant’anni. Uno di questi riti è la pubblicazione dei testi su Tv Sorrisi e Canzoni, nel numero che presenta la imbarazzante foto con tutti i protagonisti, foto che ci riproietta in maniera clamorosa negli anni Ottanta, fatto che spinge chi scrive a correre in bagno cercando il Topexan.

I testi di Sanremo. Ogni anno ce lo ripetiamo, come un mantra. I testi delle canzoni non sono poesie, andrebbero ascoltati direttamente con la musica, durante l’esecuzione delle canzoni. Ma poi ci ritroviamo qui a leggerli, anche noi che le canzoni le abbiamo già sentite, e a commentarli. E sul fatto che non siano poesie, ovviamente, non abbiamo dubbi.

Anche se quest’anno i testi provano a stupirci. Non perché di colpo siano diventati belli, state sereni, ma perché, o tempora o mores, non parlano più di tanto d’amore. Con debite eccezioni, ovviamente, a partire dalla canzone di Elodie, che di amore parla talmente tanto da ripetere la famosa parolina che fa rima con cuore qualcosa come ventotto volte. Altro che mantra. Il testo di Tutta colpa mia, per altro, la canzone della rosacrinuta seconda classificata ad Amici, presenta una delle frase top di questa edizione: “Come solo due sguardi/ sanno tenersi la mano”.

Ma non è certo Elodie a meritare il premio di testo peggiore della covata. Qui si tratta di un lavoro certosino, un ravanare nel torbido, un lavorare sulle sfumature. E se il premio “e grazie al cazzo” lo vince Chiara con i versi “Si torna sempre dove si è stati bene”, e il premio “come fosse Antani” va al solito Francesco Gabbani col suo Occidentali’s Karma che spara, tra gli altri versi, un “Lezioni di Nirvana/ c’è il Buddha in fila indiana”, non possiamo non soffermarci su versi quali “A me capita con te di non vedere le stelle cadere/ ma nascere”, contenuti in Togliamoci la voglia (titolo peggiore dei 22) di Raige e Giulia Luzi, con buona pace di Stephen Hawkings, o “Ho guardato nell’abisso di un mattino senza alba”, Oscar al cripticismo contenuto nel testo Il diario degli errori di Michele Bravi. Niente amore, quindi, ma tante supercazzole e frasi poco dotate di senso.

Va beh, ma il testo più brutto? Nel senso, hai fatto cenno a un testo che meritava di essere menzionato come il top del top, qual è? Ecco, quest’anno è a Alessio Bernabei che va il premio che l’anno scorso fu di Lorenzo Fragola. Un po’ un premio di riparazione, tipo The Revenant per DiCaprio, perché Noi siamo infinito era di una devastante bruttezza, un po’ per l’ostinazione a occuparsi di massimi sistemi, visto che l’anno scorso c’era l’infinito e quest’anno l’universo, un po’ perché i versi “Stanotte ho aperto uno spiraglio nel tuo intimo/ Non ho bussato però sono entrato piano” sono già diventati un classico. Roba da far impallidire le 50 sfumature di grigio. Lui che oops, si fa largo non invitato. Un testo, per altro, anche un po’ ambiguo, perché non si capisce se glielo appizza, o se, nella più classica tradizione dei trombamici, ha approfittato del sonno profondo della ragazza in questione. Lui a distrarla cantando, dice nei versi successivi, a dimostrazione che non deve essere stato esattamente un ingresso trionfale di quelli che restano nella memoria. Ma ben venga un Bernabei orgoglioso del suo pistolino. Anzi, potrebbe diventare una sorta di campagna tipo Freethenipple: Freethedick. Pensateci, il testimonial già ce l’avete e ha pure il ciuffo.

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Sanremo 2017, le pagelle di Michele Monina: Carlo Conti vince tutto, De Filippi macchina da guerra che non fa prigionieri

Sanremo 2017, il video commento di Michele Monina: “Strano vedere Giusy Ferreri a rischio eliminazione”

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Direttamente da Sanremo, Michele Monina racconta la prima serata del Festival. A sorprendere il critico musicale del fattoquotidiano.it sono due dei nomi a rischio eliminazione: Ron e Giusy Ferreri.

 

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Sanremo 2017, le pagelle di Michele Monina: la canzone più onesta? Quella di Gigi D’Alessio. Robbie Williams una (vera) popstar

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Carlo Conti 4
Attrazione fatale. Carlo Conti è Michael Douglas in Attrazione fatale. Si innamora di Glenn Close, con lei mette le corna a sua moglie, poi lei prende la loro love story troppo sul serio gli cuoce il coniglietto da accompagnamento e Michael capisce che cazzata ha fatto. Solo che ormai è troppo tardi: è diventato il Sanremo di Glenn Close, oops, di Maria De Filippi.

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Sanremo 2017, il video racconto di Michele Monina: “Le ventidue canzoni? Meglio la cera fusa nelle orecchie”

Sanremo 2017, le pagelle di Michele Monina (serata cover): il masochismo televisivo di Conti, la Mannoia “in ciabatte”

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Carlo Conti- N.C.
Figuriamoci, c’è gente che ama farsi camminare sopra da dominatrici che indossano scarpe con stiletti di quindici centimetri di tacco, non sarà certo il masochismo televisivo di Carlo Conti a stupirci. Solo che alla terza puntata questa faccenda di essere lo schiavo di Maria sta cominciando a diventare imbarazzante. Ribellati.

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Sanremo 2017, il video racconto della terza serata: “Le cover? Hanno sottolineato la bruttezza dei brani in gara”

Sanremo 2017, le pagelle di Michele Monina: Elodie bella senz’anima, Ermal Meta ha lo sguardo della tigre

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Carlo Conti – 7
Carlo/Michael Douglas ha trovato il coniglietto da accompagnamento bollito nella pentola e deve aver capito che la sua Attrazione fatale con Maria/Glenn Close si mette male. Così ha deciso di metterci una pezza mettendo al centro della puntata la musica e invitando Antonella Clerici, che notoriamente è amata da Maria come il contraddittorio interno è amato da Renzi. Risultato noi abbiamo continuato a vedere la solita noia, ma dietro le quinte si devono essere divertiti parecchio.

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Sanremo 2017, il video racconto di Michele Monina: “Gli eliminati? Confermano che questo è il festival di Maria De Filippi”

Sanremo 2017, le pagelle di Michele Monina (la finale): Elodie inutile, Gabbani tormentone. L’unico vero big? Zucchero

Sanremo 2017, il video racconto di Michele Monina: dall’anno prossimo sul palco vedremo quasi esclusivamente i ragazzi dei talent

Sanremo 2017, una settimana dopo: c’è del marcio in Danimarca? Teoremi suggestivi non supportati da fatti

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Poi non ne parliamo più, giuro. Ma a distanza di una settimana dall’uscita degli album di Sanremo, in teoria, toccherebbe fare una sorta di consuntivo. Niente di definitivo, perché solo di una settimana si tratta, ma quantomeno cercare di capire se, almeno nell’immediato, il risultato finale coincide con quello del mercato. Toccherebbe, non tocca, perché, come vedremo a breve, quest’anno la situazione è un po’ diversa dal solito.

Ma andiamo con ordine, innanzitutto concentrandoci, un’ultima volta, proprio su quello che il Festival è stato in sé, a prescindere da quel che poi è accaduto e accadrà nel mondo reale. Si è chiuso il terzo e, per ora, ultimo Festival di Carlo Conti, vinto da Occidentali’s karma di Francesco Gabbani su Fiorella Mannoia e Ermal Meta. Cosa ci dice questa classifica?
Ci sono tre letture possibili. Prima, ha vinto Maria. Entrata di soppiatto all’Ariston, dopo anni in cui i suoi sono stati nostro malgrado protagonisti della kermesse sanremese, la De Filippi ha deciso di metterci la faccia, dando il ritmo al suo programma e gettando le basi per il futuro. Per questo la classifica finale, che pur non vede presenti apparentemente nessuno dei suoi (dicono la Mannoia sarà giudice a Amici, e in tutti i casi le è sicuramente vicina), le è particolarmente congeniale, perché prima l’eliminazione di Gigi D’Alessio, Ron e Al Bano, poi la sconfitta della canzone d’autore alta, si fa per dire, di Fiorella a opera della canzoncina leggera della scimmia che balla sembra davvero l’ultimo passo per la rottamazione di Sanremo. Dall’anno prossimo nessun Big vero verrà in gara, questo sembrerebbe dirci la classifica.

Seconda, ha perso Maria. Proprio quando sembrava che la De Filippi avesse fregato le chiavi di casa a Carlo Conti, vuoi per il ritmo narcolettico del programma tv, vuoi per la massiccia presenza in gara dei suoi, ecco che il Carletto nazionale ha assestato il colpo mortale. Dopo che per mesi si è gridato alla vittoria di Fiorella Mannoia, ecco la mossa da vecchio leone, con lo sguardo puntato su Gabbani, titolare della canzone più radiofonica e decisamente più simpatica della covata. Un sacrificio, quello della Mannoia, che però dimostra come qualcosa di nuovo dal Festival possa sempre uscire, e in questo caso un cantautore già vincitore di Sanremo Giovani, sempre sotto Conti. Nello specifico un incrocio tra Battiato e il Silvestri di Salirò. Il tutto condito da ascolti incredibili, e buona fortuna a chi lo dovrà sostituire l’anno prossimo. Entrambe le letture in questione sottintendono che ci sia qualcosa sotto. Che la giuria di qualità abbia votato scientificamente, forse anche la giuria demoscopica. Teorema suggestivo, ma certo non supportato da fatti.

La terza lettura, infatti, è quella più probabile. Questa. Gabbani ha vinto perché la Mannoia ha perso. Candidata in pectore alla vittoria finale ha peccato di arroganza, giocandosela male, arrivando in finale con due cantautori con la fame di successo, arrivati alle luci della ribalta dopo tanti anni di gavetta. Li ha perso contro la canzone apparentemente più leggera, sconfitta, per dirla crudelmente, dalla scimmia, ma almeno salvata dalla pena di aver perso nello scontro diretto con colui che le ha sfilato di mano il premio della critica. Magari, se avesse portato una canzone meno bruttina, sarebbe andata diversamente.

Passando alle classifiche, invece, c’è da constatare che ha senso guardar solo quella dei singoli, perché di album ne sono usciti pochini, circa la metà rispetto ai partecipanti, e in molti casi si tratta di repackeging. Bene, guardando ai singoli, su iTunes, la classifica finale si rinnova. Primo Gabbani, seconda Mannoia e terzo Meta. Anche il quarto è il medesimo, l’ectoplasmatico Michele Bravi, e l’unica altra artista in Top 10 è Bianca Atzei. Lievemente diversa quella di Spotify. Sempre primo Gabbani, secondo Sergio Sylvestre e la sua Con te, poi a seguire Ermal Meta, Paola Turci, Bianca Atzei. Mannoia non pervenuta.
Ce n’è abbastanza per aprire dibattito, direi.

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Francesco Gabbani e la sua “canzoncina”? Diciamolo, la scimmia nuda che balla ha rotto il ca***

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A tutto si può porre rimedio, tranne alla morte. Lo afferma un detto popolare, possiamo credergli. Ma è un fatto che la situazione vi è decisamente sfuggita di mano, e manca tanto così che non ci si possa porre rimedio, causa morte per orchite.

Diciamolo senza se e senza ma: la scimmia nuda che balla ci ha rotto il cazzo.

Il primo a pensarlo, credo, sia proprio lo stesso Francesco Gabbani, che da ragazzo sveglio quale sembra non può non aver capito che se non la smettete subito di tributare tutto questo amore verso la sua canzoncina e la scimmia che ne è diventata simbolo, la prima a morire sarà proprio la sua carriera, per sempre legata a un tormentone carino, ma non certo di quelli che vorremmo vedere associare al nostro nome vita natural durante. Riassumiamo la situazione, a beneficio di chi fosse uscito dal coma solo ieri.

Francesco Gabbani, quello che l’anno scorso ha vinto Sanremo Giovani col tormentone Amen partecipa al Festival di Sanremo. Non ci crede più di tanto, infatti la lavorazione del suo album comincerà mercoledì prossimo, con tutta la calma del mondo. Partecipa a Sanremo, dicevamo, con una canzone leggera che ha un testo meno leggero di quel che sembra che prende per il culo questa mania occidentale di cercare certezze a oriente.

Per supportare la sua presenza sul palco dell’Ariston organizza un balletto (come già l’anno scorso), e siccome la canzone cita (con la c minuscola) la scimmia nuda dell’etologo britannico Desmond Morris, ecco che al suo fianco appare un ballerino vestito da scimmia. È amore. Del pubblico nei suoi confronti. Amore che va di pari passo con il disamore per la vincitrice annunciata del Festival, Nostra Signora della Canzone Impegnata Fiorella Mannoia, rea di essersi presentata con troppa alterigia e con una canzone dannatamente brutta. Una canzone dannatamente brutta che ha un testo, se possibile, ancora più brutto della canzone nel suo insieme, che tra l’altro parla proprio di quello che Gabbani prende per il culo. Il senso della vita affrontato con un po’ di orientalismo pret-a-porter. Namaste’ ale’, ecco che Gabbani arriva nella finalissima e vince sulla Mannoia. Non contento di aver fatto vincere la scimmia che balla su quarant’anni di carriera, le chiede scusa dal palco dell’Ariston, passandoci pure per umile e modesto.

Inizia l’apocalisse.
Parte la Occidentali’s karma mania.
O la fanno partire.
Perché la canzone piace, è un fatto: carina, ripeto, non bella, ma piace. A spingere la mania però è anche un sapiente lavoro di marketing.

Lodevole, eh, almeno finché non ci rompe il cazzo.

Seguendo la lezione di Lady Gaga, e consapevoli che senza album fuori Gabbani e la Bmg stanno perdendo presumibilmente decine di migliaia di copie, chi si occupa di comunicazione per lui decide di spingere su una costante attenzione intorno a lui. Ogni giorno qualcosa. La meta è metà maggio, quando durante l’Eurovision arriverà il disco: tre mesi da riempire.

Quindi via con le notiziole da colonnino di destra dei siti, da chiacchiere in radio. Gabbani spopola in tutta Europa, dicono. Mah, parliamone. Essere primi a Malta e in Svizzera direi che non è uguale esserlo in Inghilterra, Francia o Spagna, ma sempre meglio di niente, crediamo tutti nel Gabbani europeista. Via alla storia di Fabio Ilacqua, autore del testo, poeta e pittore contadino che non ha il telefonino e il televisore. Ci ho passato le ore prima della finale, posso confermare, ma anche la naivete di Ilacqua dopo poco non interessa più. Allora via alle analisi del testo, con citazioni svelate, paragoni con Umberto Eco. Via a tirare in ballo Battiato, Silvestri, chi più ne ha più ne metta.

Via alle notizie fake. Gabbani ha il pacco grosso. Gabbani è gay. La prima lasciata lì, la seconda smentita. Allora via all’intervista della fidanzata. E ancora la scimmia. Ovunque la scimmia. Nei titoli, nelle foto, nelle citazioni.

Arriva a che un’intervista a Desmond Morris, l’etologo cui si deve la citazione della scimmia nuda che balla. Il suo libro, La scimmia nuda, appunto, è andato in ristampa. La versione ancora sul mercato è finita prima su Amazon Italia.

Voi non state bene. Che vi frega di un libro scritto da un etologo? Sapete cos’è un etologo? È bastata una canzoncina, perché se questa è una canzone profonda, diciamolo, Carte da decifrare di Ivano Fossati è l’abisso nietzchiano, quindi, è bastata una canzoncina a fare di voi appassionati di etologia?
Dai, Cristo santo. Siate seri.

Ma l’intervista a Desmond Morris è il Top. L’ufficio stampa di Gabbani, invece che compiacersene, dovrebbe essere terrorizzato a casa, nascosto sotto una coperta, convinto che stia per arrivare la fine. Perché capisco la felicità di Morris per essere tornato in auge (sempre che ci sia mai stato in Italia) a causa di una canzoncina, ma come cazzo si fa a dire che il testo di Occidentali’s karma è al livello di John Lennon e Bob Dylan? Dire una cosa del genere è uno scempio. La leggi e ti viene voglia di cavarti gli occhi con un cucchiaio come certi personaggi posseduti dal diavolo nei film de l’esorcista.

John Lennon?
Bob Dylan?
Francesco Gabbani?
La scimmia nuda?

Basta. Salvateci da questa roba. Soprattutto salvate Gabbani, che rischia di vedersi impantanato in questa faccenda, senza possibilità di via d’uscita. Non è solo questo, ci ha detto. Bene, la smetta di permettere a chi gli sta intorno di usare una cazzo di scimmia come simbolo della sua poetica. Finirà per odiarla, lui. Noi la stiamo già iniziando a odiare.
Se vedi un punto nero spara a vista, o è la scimmia nuda o è un fascista.

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